domenica 22 marzo 2009

IL CASTEJON DI COLOGNOLA AI COLLI: L’ALTARE SOTTO L'ASFALTO











Verona 1973

In archeologia, come « coppelle» o « cuppelle»  (dal latino « piccole  coppe») vengono definite quelle concavità più o meno numerose e di diametro più o meno minuscolo che - per lo più dalla tarda età del Bronzo in poi - l’uomo ebbe a praticare su lastre di basalto, porfido od altre rocce con strumenti di selce o di metallo.
Purtroppo le voci « coppella » o « cuppella » non esistono ne sull’ Enciclopedia Italiana Treccani e nemmeno nei molti manuali di preistoria, protostoria od archeologia oggi in commercio.

UN INTERROGATIVO ARCHEOLOGICO

Eppure, sin dai primordi della paletnologia, la forma e la disposizione di tali rotonde incisioni rupestri destarono l’interesse degli studiosi anche se - a quel che mi risulta - nessuno ancora vi si dedicò con uno studio che definisca chiaramente tutti i problemi fatti sorgere da questo non unico interrogativo archeologico.
Va ancora tenuto presente - per quel che riguarda le « coppelle » su pietre basaltiche - che il basalto, come roccia formatasi in seguito al raffreddamento ed alla solidificazione di magma fuso (i basalti veneti hanno un'età che va dal Cretacico superiore al Miocene inferiore),  presenta spesso una struttura porosa con bolle formate da scorie vulcaniche. Tale roccia, se spaccata, può dunque presentare talvolta « coppelle » naturali anche se grezze ed irregolari, ma chiaramente differenziabili dalle « coppelle » formate dall’ uomo su di un « liscione » levigato da agenti naturali o artificiali.
L'autore che maggiormente si è diffuso, ai primi del nostro secolo, sul problema delle « coppelle » è stato certamente Emilio Carthailhac  (1) il quale ci assicura che « les pierres à ecuelles » vennero segnalate per la prima volta nella Svizzera, nella seconda metà dello scorso secolo. Seguì la constatazione che analoghe pietre a coppelle esistevano nella Scozia, in Inghilterra, in Irlanda,  Scandinavia, Marocco, Francia, Germania, Portogallo  (2).

MITI E RELIGIONI SOLARI

Che tali manifestazioni “d’art mobilier”, come dicono i francesi, fossero un tempo legate al culto delle pietre e del Sole, sembra oggi scontato.  Infatti, per il primitivo, la pietra non fu mai qualcosa di morto poiché la durezza, la pesantezza, la compattezza della pietra rappresentavano per lui cariche di forza misteriosa e divina.  Anche il capo degli apostoli, Pietro, non ebbe infatti da Gesù il soprannome di Cefa  (greco Petros, roccia) e cioè « uomo-pietra »?  E nel Vangelo è scritto che Gesù disse a lui: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa ».
Nella fantasia poi degli uomini soprattutto dell’età del Bronzo, molti altri fenomeni inspiegabili divennero oggetto di potenza magica, come l’acqua che sprizza dalla roccia, come lo strano potere di tal une pietre di trasformarsi, di divenire un’altra cosa, come la roccia che - sotto l’azione del fuoco  si trasforma in metallo completamente diverso dal minerale, bianco come la luna o giallo come il sole.  Da quelle pietre, per l’azione del sole o del fuoco, emanava un caldo flusso di vita, come al piede del primordiale sacrario di Colognola ai Colli, sprizzava, anche nel pieno dell’inverno, l’acqua tiepida di Caldiero.
Una volta che l’uomo constatò tali forze per lui misteriose cercò di indurle in se stesso propiziandosele ed il rito più corrente consiste nell’aspergere di sangue o di olio la pietra sacra come offerte alla « casa del dio »  (Betel).

L’OFFERTA DELL’OLIO

L’ olio, quale sostanza dotata di forza, aveva nel culto la stessa parte del grasso che si usava bruciare come sacrificio alle divinità superiori; l’ungere d’olio l’oggetto di culto oppure offrirgli dell’olio aveva per fine un immagazzinamento di forza e le coppelle trattenevano più a lungo la liquida sostanza sulla pietra consacrata.
E non era l’olio necessario per avere la luce che illumina?  Possedeva  quindi un potere invocatorio, era indispensabile nella lotta contro le tenebre, cioè contro le potenze del male che privavano gli uomini dei benefici e salutari raggi del Sole.
Nella mitologia del popolo greco l’olivo era l’albero sacro a Minerva poiché si credeva che tale divinità l'avesse introdotto nell’Attica facendolo scaturire dalla roccia quando essa, con la sua lancia, colpì il sacro suolo dell’  Ellade.
Così i Semiti ungevano d’olio la pietra sacra (Genesi, XXVIII, 18), così per i Sardi dell’età del Bronzo si celava nella pietra lo spirito fecondatore e « questo era assunto, magicamente, dalle vergini spose, scivolando, nude, sul pilastro unto per l’occasione (pietra di Ortueri detta « Sa Frissa »,  cioè « l’unta »,  che ricorda la «colonna unta» o « toro del cielo» del mito egizio), o sfregandovi il ventre  e  il sesso o semplicemente arrampicandosi: era il sacrificio venereo al genio della pietra, perchè il grembo femminile non negasse la prole, segno di maledizione e di castigo. (3).

MANIFESTAZIONI MAGICHE

Manifestazioni magiche che ricordano quelle descritteci dal Cartailhac  (4) : « Dans le departement de l’Aain, lorsque les jeunes filles e les veuves allaient en pèlegrinage à l’antique chapelle de Saint-Blaise, elles passaient à Thoys et près d'un petit bloc erratique ovale, couvert d’une soixantaine de cupules; là, elles se livraient à certaines pratiques pour obtenir un epoux dans l’annee ».
E lo stesso autore aggiunge che da tutta la penisola indiana, le femmine portano acqua dal Gange fino alle montagne di Penhjab per irrorare le coppelle esistenti in quei templi implorando la divinità che faccia loro la grazia di divenir madri.
Così fra i Semiti occidentali si usava ungere le « massêbôt », le sacre pietre, con sangue e con olio per indurre in esse o nel nume in esse contenuto, una forza voluta. Pertanto in Oriente anche oggi vengono unte le statue divine, come nel culto di Quirino si ungevano le armi, i re ed i profeti, come ancor oggi si ungono con l’ Unto del Signore i sacerdoti, e si dà l’estrema unzione ai cattolici morenti per dare un certo qual vigore all’anima che se ne va. Il sacro « crisma » infatti non è che una miscela d’olio d’oliva e di balsamo che serve anche nella consacrazione delle chiese e degli altari.
Nell’Annuario Scientifico ed Industriale (a. III, 1866, pag. 224) a cura di Giovanni Canestrini è scritto:  « Morlot fece alcune osservazioni sulle pietre a  scodella, di cui si rinvennero degli esemplari in diversi cantoni della Svizzera: esse si trovano fino nel centro delle Alpi e ad una altezza ragguardevole. Gerlach ne trovò una sulla via del Sempione e Morlot ne vide un’altra presso il villaggio d’Ayer. Quest’ultima è molto singolare; essa è coperta di molte cavità artificiali. Gli abitanti la chiamano Pietra del Selvaggio e dicono di vedervi sovente le fate.  Scavando nel suolo intorno alle pietre e scodella si trovano talvolta dei carboni e dei frammenti di vasi antichi. Il masso a scodella osservato da Gerlach trovasi presso il villaggio di Schalberg all’altezza di più che 1500 metri e chiamasi Sasso delle Streghe. Due altre simili pietre furono osservate dal Morlot presso Thonon; la più interessante si fu quella di Peneux formata da un masso erratico portante alla faccia superiore molte cavità artificiali. La gente del paese diceva che il sabato vi si radunavano gli stregoni e che talvolta nelle cavità si trovava dell’olio, allorché farebbe credere vi si facessero ardere degli stoppini e che il masso a scodelle servisse da altare. Altre pietre a scodelle furono osservate dal dotto Clement a Saint-Aubin, cantone di Neuchatel, dove ne vide di quelle a molte cavità comunicanti per solchetti ».

L’OFFERTA DEL SANGUE E DEL VINO

I veneratori di divinità acquatiche fanno scorrere nell’acqua il sangue delle vittime ad esse offerte; quelli che adorano divinità risiedenti nelle pietre sacre facevano e fanno altrettanto lasciando scorrere  del sangue sul sacro altare.  Avevano incavi per tali liquidi le tavole di pietra (hotep) degli Egiziani, trovate in gran numero nelle tombe; coppelle venivano incise sulla pietra presso le tombe degli antichi Sardi. Hanno incavi per i sacri liquidi gli altari rinvenuti negli strati più bassi e perciò più antichi delle città  Cananee, Megiddo e Taanach,  altari consistenti in una semplice roccia, nella quale sono state scavate delle scodelline per le liquide offerte.
Il sangue è per l’uomo l’eminente veicolo della forza vitale, poiché se esce dal suo corpo, l’uomo muore: ecco perchè, nei rapporti tra l’uomo e il dio, si tingevano e si aspergevano anche di sangue gli altari. Il sangue, con il Cristianesimo, venne sostituito, nel sacro rito, con il vino e infatti è l’espansione del Cristianesimo che ha contribuito alla diffusione della vite, essendo il vino, per i cristiani, l’elemento indispensabile per celebrare la messa.  Erano infatti contrari al vino i Buddisti e gli Ebrei, e così i Metodisti e i Mormoni.  Nabucodonosor a Babilonia versava « fiumi» di vino e d’olio sugli altari per onorare gli dei; a Roma, per purificare un campo che si coltivava per la prima volta, si spruzzava la terra di vino. Ancora oggi, nella Valpolicella, i vecchi, prima di bere il primo bicchiere di vino intingono due dita nel bicchiere e le scuotono verso terra affinché alla « madre» siano restituite alcune gocce propiziatorie. Nel Gabon la più alta espressione del sacrificio consiste nel versare sul terreno vino di palma, idromele e birra di banana (5).

GLI ALTARI ALL'APERTO

Scrisse Grillo Korolevskij, alla voce Altare, nell’Enciclopedia Italiana Treccani, che « nelle età più antiche il culto non era reso nei templi, ma all’aperto, così anche gli altari erano costruiti, senza alcuna relazione a un tempio, qua e là, dovunque il divino si credeva presente: sulle alture, in mezzo ai boschi, alla sorgente dei fiumi, ecc., o anche in cavità sotterranee, quando erano destinati al culto di una divinità ctonia o di qualche personaggio defunto ».
Così i Greci e i Romani non avevano altari nei templi ma nei luoghi aperti, e, in origine, non li avevano che di rozze pietre o di zolle.
Taluni reputano che la stessa voce altare sia derivata da alta e ara che appunto significherebbero luogo rialzato, ma altri da altus, participio passato di alere, nutrire, indicando la mensa dedicata a ricevere il cibo offerto al nume, voce questa che ancor più ci avvicinerebbe alla funzione delle nostre coppelle.
Diego Sant’Ambrogio in una nota di commento nell’opera classica di divulgazione del Du Cleuziou (La creazione dell’uomo e i primi tempi dell’umanità) ricorda: « Di queste pietre con scodelle, o pietre cuppelliformi, parlò per primo Desor nel 1879, e ne furono rinvenute anche in Italia, al Piano delle Noci in Val d’Intelvi per cura del cav. Barelli, e presso Rivoli per opera del dotto Piolti. 
Nell’una e nell’altra località le cavità scodelliformi si vedono su massi erratici, ma in vicinanza di Sion nel Vallese si scopersero cavità consimili anche sulla roccia in posto. Si consultino per maggiori notizie, la Rivista Archeologica della provincia di Como del settembre 1880 e gli Atti dell’Accademia di Torino, dell'anno 1883, vol. XVI. ».

COPPELLE E ASTRONOMIA
Da parte sua il Cartailhac (6) assicurò che nella Svizzera sin da allora ci si chiese per la prima volta se i gruppi di coppelle non volessero raffigurare qualche costellazione.
Ma anche nell’appendice al citato volume del Du Cleuziou, tra le “Ultime scoperte fatte nell’antropologia preistorica” vi è pure un'interessante lettera del principe russo Paolo Pontiatinn indirizzata a Camillo Flammarion verso la fine del 1884 e da questi pubblicata in Astronomia, rivista mensile di astronomia popolare, 1 febbraio 1885.
La lettera presenta « il facsimile d’un disegno astronomico fatto sopra un lisciato d’ardesia trovato a Bologoe»  e il Flammarion dichiarò che  « era forse un amuleto dei primi pastori », aggiungendo: « La rappresentazione dei sette astri del settentrione non è rara fra gli antichi. Visitando le solitudini di Bretagna nei dintorni di Guerande e del borgo di Batz, abbiamo osservato sugli scogli un gran numero di disegni fatti col mezzo di fori sulle rocce e fra di essi si riconoscono fra l’altre, la Grande Orsa e Cassiopea ».
E conclude:  «... non si saprebbe ringraziare abbastanza coloro che discoprono simili vestigia delle età scomparse e si danno cura di farle conoscere, affinché, con la pubblicazione, apportino il loro elemento al miglior progresso generale delle conoscenze umane ».
Ma per passare dallo scorso secolo ad oggi - sempre in tema di coppelle e astronomia - ecco quanto ci dicono Carlo Sebesta e Scipio Stenico in un loro ottimo studio (7):  « Per quanto riguarda una eventuale puntualizzazione sui fenomeni celesti si dovrà tener conto della possibilità di una puntualizzazione  celeste, in periodo preistorico, molto più raffinata di quella che non possa eseguire un comune uomo dei nostri giorni e per il quale le situazioni astronomiche non hanno un addentellato ideologico che lo sollecitino.
ASTRONOMIA E PREISTORIA
« Oltre all’avvicendarsi del giorno-notte, oltre alle fasi lunari, si presero certo in considerazione già in tempi molto remoti, i movimenti del cielo stellare e si stabilirono i rapporti sole-luna, sole-stelle raggruppati in costellazioni. L’osservazione celeste è stata evidentemente una delle prime specialità scientifiche con carattere di sacralità ed il lato magico di questa osservazione è confermato dal fatto che l’astronomia diviene precocemente scienza di casta sacerdotale. Certamente non si può generalizzare a tutte le coppellazioni un significato di trasposizione astronomica. Esiste però un gruppo di segnalazioni critiche con dimostrazioni di situazioni solari, solstiziali ed equinoziali molto evidenti; così dicasi per quanto riguarda il campo stellare e zodiacale di cui troviamo relitti di guida a ritroso su sigilli e ornamenti dell'Asia Minore, ancora sigilli e certa decorativa ceramica micenea . . .
« Annotiamo qui per il Trentino, in campo di figurazione stellare, una segnalazione del Calestani (8) su un gruppo di coppelle della Val di Sole in cui si ritenne di ravvisare la Cassiopea (purtroppo il masso è andato distrutto) e, per il confine Trentino - Alto Adige, la segnalazione del prof. Leonardi (9) che ci lasciò una precisa riproduzione figurativa nella quale abbiamo riconosciuto senza equivoco la costellazione dell’Orsa Minore annotata con tale precisione da poter riconoscere nel contesto della costellazione vari gradi di grandezza stellare e da poter presumere di arrivare ad intuire la stagione fissata dall’incisore astronomo. Purtroppo il testo di coppellazione è mutilo; la presenza però a Ovest dell’Orsa Minore di altre coppelle in particolare posizione-rapporto ci  fa sospettare un quadro comprendente anche l’orsa Maggiore. Qui, oltre all’interesse cronologico stagionale ci pare notevole la possibilità di una datazione di epoca di coppellazione che tragga supporto dai reperti archeologici del luogo ».
Per quel che di « astronomico» può riferirsi alla grande « pietra a coppelle» di Colognola ai Colli, lasceremo agli specialisti l’incarico anche perchè - sia la fotografia che il disegno ricavati - non possono avere che un carattere indicativo. A noi comunque rimane sempre il dovere di invitare quanti devono e possono farlo, a rimettere in luce il reperto poiché trattasi di una grande manifestazione d’art mobilier, fino ad oggi unica del suo genere in tutta la Lessinia.

INSEDIAMENTI E COPPELLAZIONI

Ma per riprendere il nostro - chiamiamolo pure così - excursus archeologico, una vera e propria relazione  cronologica tra insediamenti Preistorici e coppellazioni (in rocce o massi sulle sommità di colline in luoghi panoramici, in prati di alta montagna, in castellieri del Trentino) se la proposero - per primi nelle Venezie - il Sebesta e lo Stenico con l’opera citata, ma a conclusioni vere e proprie sembra che anch’essi - per il momento - non siano ancora giunti.
Sappiamo di una serie di coppelle scavate sulla superficie porfirica del Dos Zelòr in Val di Fiemme, scoperta nel 1949 dall’ illustre amico dott. Piero Leonardi il quale scrisse che l’ insediamento, sorse probabilmente alla fine dell’età del Bronzo sulla sommità del dosso, con le caratteristiche di un « castelliere ». Tale insediamento si estese poi, nell'età del Ferro, sui fianchi del colle e sui prati a settentrione, raggiungendo il massimo sviluppo, nei  primi secoli dell’ Impero romano (10).
Della fine dell'età del Bronzo sembrerebbe la coppella di uno dei massi del « Ciaslir » del monte Ozol nella Valle di Non (11) mentre sembrerebbero dell’età del Ferro le coppelle di un masso rinvenuto ai Montesei di Serso presso Pergine in Valsugana durante scavi condotti da Renato Perini, Alberto Broglio ed altri.  Il masso con coppelle era immerso in terriccio con carboni e resti di ceramica tipo Luco  (12).
Del Bronzo-Ferro sembrerebbero pure molte manifestazioni coppelliformi della Valcamonica.
Il Süss  (13) ricorda, a questo proposito, che nei pressi delle Terme di Boario, fissate su una rossa arenaria nota con il nome di « pietra simona », sono state scoperte, nel 1955, molte figurazioni e   su varie rocce è impressionante il numero delle coppelle,  a decine, di tutte le forme e di tutte le dimensioni: la posizione delle rocce e la presenza di tante coppelle ci dice della loro destinazione a luogo sacro, luogo di sacrifici o per lo meno di offerte votive sotto forma di piccole quantità di olio o di frumento o di sangue degli animali immolati in onore delle divinità del posto. Ciò premesso non ci meraviglia trovare sul « Crap di Boario » diverse iscrizioni a caratteri l’retici, almeno una decina, sempre parole o lettere isolate, o parole monche e piuttosto irregolari, come se mani diverse e non sempre abili avessero tracciato le varie scritte. Questa « roccia delle iscrizioni » è situata ad una cinquantina di metri a picco sulla nazionale tra Darfo e Boario.
Anche secondo il Siis, l’accostamento di iscrizioni in caratteri retici alle «coppelle» confermerebbe che i piccoli incavi tondi vanno proprio considerati come recipienti per le offerte alle divinità, comunque anche per la Valcamonicia la relazione cronologica tra insediamenti e coppellazioni non è stata ancora definita.
E così dobbiamo dire delle coppelle di San Vigilio e di altre località della Gardesana montebaldina scoperte dal prof. Mario Pasotti unitamente a infinite altre incisioni rupestri le quali, ormai da anni, attendono di essere valorizzate come meritano ed ulteriormente studiate.

SALVARE IL SALVABILE

Molto ancora dunque si deve ricercare e studiare prima di giungere alla risoluzione del nostro interrogativo fissando in modo particolare l’attenzione sui livelli ligure, celtico, retico, gallo-etrusco e gallo-romano.
Da qui la massima importanza di ricerche approfondite sui tre principali castellieri veronesi sorti a dominio della Via Postumia romana e preromana, situati in San Briccio di Lavagno, Colognola ai Colli,  Monteforte d’Alpone e risalenti tutti quanti meno alla tarda età del Bronzo.
Ma tutto questo se si vorranno salvare da ulteriori gravissime manomissioni poiché i danni peggiori, questi tre complessi archeologici debbono ancora subirli.
A San Briccio di Lavagno, sul colle basaltico che separa la valle di Mezzane, costruendo (1883-84) la fortificazione tutt’ora esistente, assieme ad altri resti archeologici e con scheletri umani  (Notizie degli Scavi - 1884), vennero pure  messi in luce due pezzi di corna di cervo segati e forati alla base con incise iscrizioni venetiche riconosciute da Carlo Cipolla e Stefano de Stefani.  Tali iscrizioni richiamarono alla mente quella incisa su una spada di bronzo rinvenuta nel 1672 a Cà dei Cavri presso Verona.  La spada apparteneva al Museo Moscardo e poi passò al conte Marco Miniscalchi (Segala G. Storia patria).  Sul colle si rinvennero pure vasi a bande orizzontali rosse e nere del terzo periodo e molti altri oggetti atestini.  (F. Zorzi - Preistoria veronese - Insediamenti e stirpi - Verona, 1960).
Ma fin dal 1846 San Briccio aveva già fatto parlare della sua preistoria allorchè venne alla luce « un singolare parallelepipedo di argilla mediocremente fina a spigoli rientranti, ornato in testa di una croce diagonale profondamente incisa, raccolto dall'ingegnere Antonio Mazzotto sulle falde del colle di San Briccio di Lavagno, non meno di tre metri sottoterra, fra grandi pezzi di corna cervine, ed un corno di capriolo» (14).  Il « singolare parallelepipedo » era forse un peso da telaio od una « piramidetta votiva ». 



Quali legami possano avere questi rinvenimenti di San Briccio con il non lontano Castejon di Colognola è presto detto ricordando quanto ci (15) raccontò Angelo Tregnaghi del luogo e che nella primavera del 1967 aveva 74 anni.
« Sul Castejon - affermò il Tregnaghi - quando go impiantà le vigne e sarà quaranta ani, go fato un fosso soto el marognon (ad ovest del muro più grosso) verso la Mota (il tumulo (?) a nord del castelliere) e gavemo catà pignate rote e meso saco de corni de cervo con su de le scrite ». Richiesto come si presentassero tali “scrìte” ci spiegò che vi si vedevano incisi dei segni diritti e tra questi di quelli simili alle “K” ». Erano dunque scritte retiche o venetiche?
Nulla di assolutamente improbabile e da qui la necessità di scavi accurati poichè tratterebbesi di ex voto assai caratteristici ed oltremodo tipici delle popolazioni alpine insediatesi anche nella nostra regione prima del dominio romano.
« Tali iscrizioni - come dichiararono il Pellegrini e il Sebesta (16)- forniscono un materiale di estrema utilità per istituire confronti e parallelismi con altre stazioni preromane e soprattutto con Sanzeno in Val di Non e con Magrè presso Schio ».
« . . . Trattandosi con tutta probabilità di ex voto, dovremmo ipotizzare che contengano una formula di ringraziamento. Secondo tale supposizione, oltre ad un eventuale nome di divinità, e forse il nome dell’offerente, i corni potrebbero contenere l’equivalente di formule dedicatorie ben note in iscrizioni latine e presenti anche in una bilingue venetico-latina ».
« . . . Per gli ex voto ottenuti da palchi di cervo, il santuario perginese richiama da vicino la stipe di Magrè Vicentino e altri rinvenimenti occasionali; ad es. il corno iscritto di Tarces in Venosta, quelli di Sanzeno e di Meclo in Val di Non e di San Briccio di Lavagno (Verona) ».
« . . . Un’iscrizione in cui si legge chiaramente “arus’nas” ci offre inoltre notevoli garanzie di sicuri contatti tra il Trentino ed il Veronese, nel quadro delle popolazioni preromane, prevalentemente retiche, etruscoidi, e poi galliche, ma comunque gallo-venete ».
Fondamentali in proposito gli studi di Giulia Fogolari su “Sanzeno nell’ Anaunia, di Giuseppe Pellegrini per Magrè, e di K.M. Mayr su San Briccio di Lavagno.

DALL’ EPOCA ROMANA AL MEDIOEVO

Per quel che riguarda il Castejon durante il periodo romano vero e proprio non va dimenticato che in tutta la zona del comune di Colognola ai Colli si rinvennero monete e ruderi di quel periodo (17),  statuette di bronzo, tombe ed avanzi di acquedotti in piombo e cotto.
È noto agli archeologi ed agli storici (18) che per Colognola ai Colli passava una variante alla  Via Postumia che proseguiva poi per le frazioni Pescaria, Fontana del Castejon e ridiscendeva ad Orgnano, San Vittore e Soave, da cui al Castelliere del Monte Zoppega e continuava quindi verso Montebello ed il territorio vicentino.
Alcuni reperti archeologici parlano chiaramente di un adattamento del Castejon a fortilizio romano e le tradizioni orali accennano ad una “città”  romana sepolta nel Castejon, a segnalazioni con fuochi e fumate tra il Castejon ed i colli di Soave.
Il Castejon ebbe importanza e rimaneggiamenti anche nel Medioevo e infatti, nella Cronica di Verona dello Zagata (pag. 31, Parte Prima) è scritto che nel 1236 « el Castegion da Colognola fò dato al Conte Rizzardo (di Sambonifacio) per Filippo fiolo de Bonaìgo ». Lo Zagàta  precisa altresì in nota: « Cioè un Forte, che serviva come vanguardia al Castello; Ritiene ancora quel Monte sopra del quale era edificato; ed ora (1745) è posseduto dalla Famiglia Felisi ».
Come si combattesse in periodo medioevale attorno ai « castellieri » riadattati viene raccontato dallo storico Sismondo de’ Sismondi  (Vallardi, Milano, 1860) nella sua Storia della Libertà in Italia:  «... Il più delle volte in tutto il corso d’una guerra non si veniva a battaglia campale, e talvolta non si badaluccava nemmeno: in tal caso tutta la guerra consisteva in una o più cavalcate, chè così chiamavansi le scorrerie ne’paesi nemici.  L’esercito nemico innoltravasi con intenzione di bruciare le case, distruggere le messi, di rubare le mandre; tutti gli abitanti fuggivano al suo appressarsi, e riparavano entro le terre murate. Siccome gli aggressori non potevano trattenersi per assediarle, proseguivano il cammino guastando tutto quello in cui s’abbattevano. Intanto il condottiero cui era affidata la difesa del territorio, provvedeva i castelli di truppe, teneva dietro ai nemici, spiava l’opportunità di sorprenderli, s’avventava contro i predatori sbandati, li forzava a non allontanarsi dal campo ed in pochi giorni obbligava quasi sempre l’aggressore a dare addietro ed a uscire dal territorio per mancanza di vittovaglie . . . non potevasi occupare una valle della lunghezza di sei miglia se non dopo aver superato otto o dieci castella con altrettanti assedj . . . Se il nemico non trovava viveri nel paese in cui guerreggiava, non poteva némeno trarne dal proprio, perchè tutto lo spazio che si lasciava addietro, non essendo sottomesso, gli si potevano togliere ad ogni passo i suoi convogli. Noi siamo usi talmente a tener conto della forza terribile e distruttrice del cannone, che non sappiamo concepire come si potesse sfidare il nemico colla sola difesa d’un muro. . . ».

IL CASTELLIERE DELLO ZOPPEGA

Ho precedentemente accennato al castelliere di San Briccio, più diffusamente al Castejon di Colognola ai Colli e non posso esimermi da un cenno sul castelliere del Monte Zoppega che si eleva ad est di Monteforte d’Alpone poichè anche questo complesso archeologico è ormai seriamente minacciato.
Fu nell’estate del 1953 (19) che mi interessai della zona Monteforte-Castelcerino, sempre per incarico del prof. Francesco Zorzi, e infatti a quell’anno risalgono i miei primi rinvenimenti di materiale archeologico sul colle Sant’Antonio, sullo Zoppega e sul castelliere che si eleva presso l’abitato di Castelcerino.
Ma è la scoperta dello Zoppega che diede al Museo di Storia Naturale di Verona una ricca messe di materiale protostorico e preistorico ancora quasi del tutto inedito, materiale che - come quello del Castejon - documenta la presenza dell’ uomo sul posto dal tardo Bronzo all'età del Ferro  (20).
Anche qui mura di massi basaltici, anche qui frammenti di ceramiche che subito attrassero l'attenzione per varietà e molteplicità di forme, di dimensioni, di decorazioni, di impasti, di tipologia. Anche qui frammenti di colatoi, anse a cilindro, decorazioni a rotellina forse del tardo Bronzo; frammenti di vasi decorati a stampiglie con righe e cerchietti forse del primo periodo Atestino (sec. 9° e 8° a.C.); anse cornute, decorazioni a denti di lupo spesso riempiti di materia bianca forse del secondo periodo dell’età del Ferro (sec. 7° e 6° a.C.); frammenti di vasi a zone rosse e nere e giochi di cordoni plastici probabilmente del terzo periodo (sec. 5° e 4° a.C.); anche qui frammenti di scodelle grigie, senza patina, ne colore, ne ornamenti, di aspetto tipicamente gallico e cioè del 40 periodo (sec. 3° e 2° a.C.); anche qui frammenti di pietra ollare che si richiamano palesemente al periodo dell'impero romano.
Anche qui però è imminente il pericolo per il complesso archeologico di primaria importanza, minacciato dal dilagare delle aree fabbricabili, per cui già è stato fatto un invito alle autorità tutorie da parte dell’Archeoclub di Verona per la salvaguardia anche del Castelliere dello Zoppega (21).

VALORIZZARE IL CASTEJON E I « CASTELLIERI DELLA POSTUMIA»

Ma per tornare al nostro Castejon, perchè non adibirlo a grande parco abbinandolo alla valorizzazione del sottostante complesso romano delle Terme di Caldiero (22)?  In luogo adatto e in modo che non ferisca il paesaggio (come progettati « casoni » vorrebbero), si potrebbe costruirvi un museo che raccogliesse il moltissimo materiale archeologico proveniente anche da San Briccio e dallo Zoppega attualmente un po’ dovunque disperso ed avente un carattere strettamente unitario.
Ed ora mi sia permesso concludere con alcuni passi di un preciso intervento di Romolo Staccioli, segretario generale dell’Archeoclub d'Italia su una nuova dimensione dell'impegno scientifico: « I parchi archeologici » (23).
« La salvaguardia dei monumenti e dei complessi monumentali del passato e la tutela dell'ambiente in cui essi si trovano inseriti sono tra le esigenze più sentite dell’archeologia contemporanea; forse, tra le sue stesse ragioni d’essere. Certamente esse costituiscono una nuova « dimensione» dell’archeologia, la dimensione « conservativa », che si è posta accanto a quella « conoscitiva », ovviamente fondamentale e pur sempre primaria, volta al recupero e allo studio delle testimonianze materiali del passato per la ricostruzione storica delle civiltà cui quelle appartengono.
« Ma questa dimensione conservati va dell'odierna archeologia - che si inserisce a pieno diritto in quel « discorso ecologico» che sembra ormai contraddistinguere il nostro tempo - si caratterizza non tanto come una funzione statica di conservazione passiva, nel senso cioè della salvaguardia delle « cose »  dal deperimento, dalla dispersione e dalla distruzione, quanto come una funzione dinamica di difesa attiva, ossia di valorizzazione, nel senso cioè di un inserimento delle « cose» stesse nel complesso dei beni culturali dei quali sia reso godibile, sotto ogni aspetto, il « valore ».  Il che, in altre parole, equivale ad inserire il passato nell’esperienza culturale e nel patrimonio civile della società attuale.
«Questa concezione attiva e dinamica della conservazione dei monumenti del passato significa, per conseguenza, sul piano pratico, che a una fase, pur necessaria, di constatazione, di deplorazione e di denuncia del progressivo depauperamento del patrimonio archeologico, deve subentrare una fase indispensabile di proposizioni e di azioni costruttive che quel patrimonio possano concretamente salvare. Ebbene, proprio nell’ambito di questa seconda fase, e pur nella perdurante situazione di incertezza, o meglio di inerzia legislativa nel campo dei beni culturali, si è andata facendo strada l’idea delle “ riserve archeologiche”. Ossia di complessi territoriali caratterizzati dalla consistente presenza di monumenti antichi, di avanzi archeologici, di campi di scavo, organizzati in modo da garantire la conservazione, lo studio e il godimento di quello che è stato già scoperto e la preservazione, nel suo insieme, del sottosuolo ai fini di una progressiva e sistematica esplorazione scientifica.
«Tali  “ riserve” ,  poi, in analogia con i grandi parchi nazionali di interesse naturalistico, si è preso a denominare “parchi archeologici”.   Con un significato che trascende i limiti dell’archeologia pura e semplice, cioè di un patrimonio archeologico comunque preso a se stante, e che questo patrimonio considera invece come parte integrante di una più vasta realtà “paesistica” stratificatasi fino a noi attraverso i tempi e quindi intesa nel senso più completo di “ paesaggio storico”. Donde la denominazione più significativa di “parchi archeologici-paesistici”.
«Si è giunti perciò a valutare tale realtà come documento storico nel suo insieme, che si vuole salvare come tale, cioè come risultato di una fusione perfetta di archeologia e paesaggio, che è quanto dire dell’opera della natura e dell’uomo, bloccandolo con un ultimo intervento, oculato, meditato e studiato in ogni particolare, non soltanto nel senso della conservazione ma anche in quello della valorizzazione e del pubblico godimento, estetico e culturale. . .»
«Tutto ciò, mentre più incombente si fa la minaccia dell’aggressione indiscriminata da parte di iniziative, pubbliche e private, dell’espansione edilizia e industriale; mentre dall’estero si continua, e non a torto, ad accusare l'Italia di “suicidio culturale” e si arriva a proporre che il patrimonio archeologico italiano in quanto patrimonio appartenente all’intera comunità umana, presente e futura, venga sottratto alla  “sovranità” dell’Italia e posto sotto la tutela delle Nazioni Unite o, comunque, di qualche organismo internazionale».


NOTE


I) Cartailhac E. - La Fmnce prehistorique - Paris, 1903.

2) Non mancano segnalazioni dai Paesi baltici, dall'Asia, dagli Stati Uniti e dall'America meridionale. In Italia, il maggior numero di massi con coppellazioni venne segnalato in Lombardia sin dallo scorso secolo.

3) Lilliu G. - La civiltà dei Sardi - Torino, 1967. 

4) Cartailhac E. - op. cit.

5) Walcher - Plantes aromatiques offertes par les Gabonais aux Miìnes - 'Revue de Bot~nique appliquee et Agricolture tropicale - febbr. 1934.

6) Cartailhac E. - op. cit.

7) Sebesta C. - Stenico S. - Introduzione ad un catasto della coppellazione e segnatura
nel Trentino. - Studi trentini di scienze storiche. Trento, 1967.

8) Calestani V. - Masso preistorico a coppelle rinvenuto in Val di Sole - Studi trentini
di Scienze Storiche - Trento, 1933.

9) Leonardi P. - Vorgeschichtliche Felszeichnungen im Etschtal bei Castelfeder. «Der
Schlern)) - 1954.

l0) Leonardi P. - Risultati delle campagne di scavo in alcune stazioni dell’età del Ferro dell’Alto Adige e del Trentina. - In « Atti del I° Congresso internazionale di preistoria e protostoria mediterranea» - Firenze, 1950.
Di altre coppelle ancora ci parla Piero Leonardi su “Nuovi contributi alla paletnologia delta Val di Fiemme” (Studi Trentini di Scienze Storiche, 1958 n. 1-2): « Un masso porfirico con due coppelle, gentilmente segnalatomi dall’Ing. Innerebner, esiste sul ripiano del  « Corozzo»  sopra Cavalese poco lungi dal Belvedere detto « Pagoda».  Altre coppelle individuai l’anno scorso poco lungi da Cavalese sui porfidi violetti affioranti a Est e Sud-Est della Parrocchia tra la linea ferroviaria e i Masi Lusanna e Ischie.  Particolarmente interessante è una larga lastra di marne werfeniane con coppelle visibile sul fianco destro della Valle di Stava alle falde del M. Cucal, lungo il sentiero che dall'abitato di Stava conduce al Maso Zanon. Su questa lastra si distinguono una trentina di coppelle nove delle quali associate costituiscono un cerchio centrato.  Ricorderò infine una coppella esistente su un affioramento porfirico in un ripiano del fianco sinistro della Valle di fronte a Ziano, lungo una mulattiera che sale al Dos Castelir.  È opportuno rilevare l’interesse che presenta questo ultimo nome, benchè finora non sia riuscito a individuare sul dosso o nelle sue  vicinanze alcun indizio sicuro di insediamenti preistorici.  Va rilevato anche che in vicinanza della coppella surricordata, sullo stesso ripiano (dove fra l’altro un masso porfirico colpisce per la sua conformazione e posizione che ricorda quella di qualche altare preistorico o protostorico)  son ben visibili varie iscrizioni e date incise su superfici porfiriche in epoca assai recente ».

11 ) Perini R. - Ciaslir del Monte Ozol - « Studi Trentini di Scienze Naturali» _ Trento, 1970.

12) Perini R. – Tipologia  dello ceramica Luco (Laughe) ai Montesei di Serso - « Studi Trentini di Scienze Naturali ». - Trento, 1965.  Anche per il Castejòn di Colognola ai Colli le ricche decorazioni di taluni vasi farebbero ulteriormente azzardare l’ipotesi di una funzione anche rituale del « castelliere ».

13) Süs E. - Le incisioni rupestri della Valcamonica - Milano, 1963.

14) Martinati P.P. - Storia della Paleoetnologia veronese - Acc. Agr. Arti e Comm. di Verona - 1876.

15) Furono con chi scrive, dai 5 marzo al 27 giugno 1967, a più riprese, i soci del Centro studi e ricerche di Verona: Giambenito e Liliana Castagna, Renzo Castellani, Renata Cimorelli, Giancarlo Gresola, Giuseppe De Candia, Giorgio, Anna, Massimo e Stefano Fiorentini, Rosanna Franzini, Raffaele Marogna, Paolo Mosconi, Ennio Peretti, Alberto, Olga, Paolo e Maurizio Solinas, Angelo e Rita Tomelleri, Angela Zanon, Daniela e Roberto Zecchini. Allorchè consegnammo il molto materiale ricuperato in superficie al paletnologo Franco Mezzena del Museo di Storia Naturale di Verona, egli ci mostrò gentilmente alcuni frammenti di oggetti in bronzo e in argento di fattura gallo-romana (?), donati da don Domenico Carcereri nel dicembre 1881. Don Carcereri morì il 6 marzo 1930 ed a Colognola a Colli ci dissero che tali oggetti vennero alla luce allorchè si fecero le fondamenta del rustico chiamato appunto Carcereri a sud di quota 172 del Castejon. Con gli oggetti si videro molti cocci, ceneri e frammenti di ossa combuste. Tra le altre tradizioni raccolte dal Tregnaghi quella di un cunicolo che univa la cima del Castejon con il sottostante abitato di Orgnano « dove gh’era le done e que de’l Castejon i ghe andava parchè lì i fasea le orge (sic!) e da queste è vegnù el nome de Orgnàn. . . Sul Castejon gh’è le pigna te coi marenghi de oro, ma quando se le càta, se no se gà la corona de’l rosario in scarsèla, i schèi i se sfànta come la nebia».  Curioso notare come tale leggenda sia simile a quella raccolta sul Doss Trento da Giacomo Roberti nel 1925: « Narrasi che una ragazzina di Piè di Castello, la quale s’era recata sul Doss Trento a pascolare il gregge, sorpresa dalla notte, abbia pernottato sull’altura, all’aperto. Quando la mattina si svegliò, vide presso di sè un mucchio di carboni lucenti; se ne riempi il grembiule e corse a portarli a casa. La madre tutta contenta nascose i carboni dietro al focolare e ordinò alla figlia di risalire l’erta scosesa del colle a raccoglierne degli altri. Ma, per quanto frugasse, ogni indagine rimase infruttuosa. Frattanto la madre, la quale con stupore aveva constatato che i carboni  s’erano mutati in argento, si portò anch’essa sul dosso e colla figlia si diede alla ricerca del tesoro senza però trovarvi più nulla, se non una medaglietta che la figlia aveva perduto. Il tesoro era ormai introvabile perchè l’incanto era rotto. Quando ancora i carboni torneranno a risplendere, essi potranno essere raccolti da chi vi avrà gettato sopra qualche oggetto sacro».

16) Pellegrini G.B. - Sebesta C. - Nuove iscrizioni preromane a Serso (Pèrgine) - Studi Trentini di Scienze Naturali - Trento, 1964.

17) Sartori G. - Colognola ai Colli - Verona, 1959

18) Solinas G. . Storia di Verona - Verona, 1961-64.
19) Dall’Agnola L. - Monteforte d’Alpone - Verona 1959.

20) La cosi detta « età dei castellieri » ebbe appunto a svilupparsi dalla tarda età del Bronzo all’età del Ferro e cioè dalla preistoria alla protostoria. La ceramica, in questo volger di secoli, abbandona le forme arcaiche dell'età del Bronzo terminale per passare a quelle molto varie dell'età del Ferro le quali denotano influssi non indifferenti di altre civiltà come quella di Hallstatt e quella veneta di Este. Ciò vale anche per il complesso archeologico del non lontano Montebello vicentino come dimostrarono il compianto padre Aurelio Menin e il chiarissimo prof. Ferrante Rittatore Vonwiller nella pubblicazione su “La Valle del chiamo” edita dal Collegio Missionario di Chiampo (Vicenza) nell'agosto del 1972 e alle quali conclusioni si è rifatto anche chi scrive.

21) Il monte Zoppega è famoso fin dallo scorso secolo anche perchè vi si rinvennero alcune brecce ossifere non ancora del tutto sfruttate con resti di animali di età Riss-Wurmiana. Ne scrissero lo Scortegagna (1844), il Menegazzi (1847), il Molon (1875) ed Angelo Pasa il quale qui scopri nuove brecce nel 1932. Dello Zoppega sono, tra il resto, i materiali riferentisi al leone delle caverne, all’ippopotamo ed al rinoceronte, abbastanza comuni anche in Italia nel periodo Musteriano.  (A. Pasa - I mammiferi di alcune antiche brecce veronesi. Mem. Museo di St. Nat. di Verona. Vol. 1°, 1947-48).

22) Una decina d’anni fa, sul monte La Rocca di Caldiero, con alcuni soci del C.S.R. di Verona rinvenni cocci ed altro materiale risalenti all’età del ferro ed all’epoca romana, consegnati al Museo di Verona. Il monte La Rocca domina le sottostanti terme che non risalgono dunque al periodo medioevalc come taluno vorrebbe asserire. Bisogna infatti tener presente altresì che non lontano dalle terme si sviluppava la torbiera di Loffia od Offia di Sotto della quale così parlò il Martinati (1874):  « È dessa un bacino di perimetro irregolare, che giace al di là di Caldiero sulla destra della ferrovia nel comune di Colognola, del quale qualche anno fa furono portati al cav. De Stefanì cocci di vasi, schegge di selce, parte di un lisciatoio di arenaria, ed altri segni di una stazione preistorica, ch’egli seguendo il suo costume, regalò al nostro museo. Il prof. Pellegrini che lo visito’ nel marzo 1876 ne riportò un’ accetta di bronzo (paalstab) molto alterata fino alla metà da un singolare processo di ossidazione, ossa e denti di bue, di majale, di cervo e di pecora, pezzi di corna di cervo e di capriolo, pochi cocci, stiappe di grossi pali e cimelii manifestamente romani, ivi pure scavati. Vi tornammo insieme poco dopo, e ci vennero alle mani altri esemplari consimili, ed una perfetta sega di selce grigia che fu poi seguita da altre non meno belle. Notammo la presenza di parecchi pali profondamente piantati, e di travi orizzontali o con forte inclinazione giacenti, e le notizie che ci furono date sul luogo di altri legni eguali trasportati altrove o sepolti ancora nella torba, ci fece argomentare che ivi sorgesse una grande abitazione palustre, e forse un gruppo di più che una».  Così il Martinati nella sua Storia della paleoetnologia Veronese, ma anche chi scrive ebbe a recuperare, da Offia di Sotto, un cranio di Canis familiaris, altre ossa, selci lavorate e cocci che donò al Museo di storia naturale di Verona nel lontano 1933.  Inoltre sull’antichità delle terme in genere può esser utile la lettura dello studio di Luigi Pigorini sull’ ”Uso delle acque salutari nell’età del bronzo” pubblicato dall’Acc. dei Licei (vol. XVII, fasc. 11, 1908) e nel Bollettino di Paletnologia Italiana (XXXIV, pag. 69, 1908).

23) Staccioli R.A. – “I parchi archeologici” - Bollettino dell’Archeoclub d’Italia, nov.- dic. 1972.

Fonte: da srs di Alberto Solinas

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