mercoledì 22 aprile 2009

IL PATARINISMO A VERONA NEL SECOLO XIII Dagli studi di CARLO CIPOLLA


Castello di Sirmione ultimo baluardo dei Patarini

a cura di Silvio Manzati

Nel secolo XIII numerose e potenti sette d’eretici pullularono nella città e nella provincia di Verona. Erano i Catari o i Patarini, che si dilatarono fra noi venendo dalla Lombardia e dal Piemonte.

La guerra politico-religiosa condotta per tanti anni da Federico I contro il papa Alessandro III favorì l’accrescersi della potenza di queste dottrine, che, in un modo o nell’altro, combattevano la chiesa romana.
Alessandro III le condannò nel concilio lateranense (anno 1179). Il papa Lucio III e Federico I rinnovarono le condanne contro gli eretici nel concilio di Verona (novembre 1184). Nel decreto canonico sono nominatamente anatemizzati i catari, i patarini, gli umiliati, i poveri di Lione, i passagini, gli josepini e gli arnaldisti.



È probabile che in Verona, sin da quel tempo, fossero numerose le presenze delle sette. Le condizioni politiche d’Italia, al tempo di Enrico VI, figlio di Federico I, e successivamente, furono tali da incoraggiare qualsiasi opposizione al pontificato.  Fra’ Tommaso da Lentini, biografo e contemporaneo dell’inquisitore domenicano veronese S. Pietro detto Martire, ci testimonia l’insediamento dei patarini a Verona nei primi anni del sec. XIII.  Fra’ Tommaso, raccontando un episodio dell’infanzia, riferisce che il padre e lo zio di Pietro erano eretici. Siamo nel 1212 o 1213, in un tempo in cui la preponderanza ghibellina era ormai stabilita in Verona.



Si sente nuovamente parlare d’eretici in Verona nel 1233, al tempo della lotta della Chiesa contro Federico II, nei giorni del breve governo di fra’ Giovanni da Schio. Intorno al 21 luglio 1233 fu compiuto il supplizio di sessanta eretici, che durò tre giorni. Gli eretici furono bruciati, previa condanna pronunciata da fra’ Giovanni. Il cronista afferma che erano sessanta, uomini e donne, “ex milioribus” della città. Il fatto di sessanta dei migliori cittadini che muoiono sul rogo pubblicamente indica che il patarinismo era diffuso molto in Verona, senza dubbio nelle famiglie degli imperiali.
Federico II non aveva nelle leggi mai risparmiato gli eretici. Nella costituzione di Catania del marzo 1224, emessa proprio per la Lombardia, aveva ordinato che fossero bruciati, e nell’altra del 22 febbraio 1231, promulgata a Ravenna, aveva ordinato che fossero sterminati. 



Mastino della Scala, eletto podestà di Verona nel 1259, era indubbiamente di partito ghibellino. Ciò non gli impedì di dimostrarsi inesorabile contro gli eretici, i quali nell’ultimo ventennio si erano moltiplicati nel veronese.

Mastino, sebbene chiamato ora podestà ed ora capitano del popolo, non ebbe mai un comando assoluto sulla sua città. Nessuno gli prestò giuramento, come poco dopo ad Alberto suo fratello. Il suo nome non si legge in nessuno statuto.


La più antica raccolta statutaria veronese è del 1228, che nulla dice degli eretici. Mentre era potente Mastino, avvenne la seconda stesura degli statuti comunali, corretti, modificati, aumentati poi da Alberto e da Bortolomeo. Nel 1328 Cangrande I  li rifece per la terza volta.


Gli statuti di Mastino furono compilati verso il 1270. In essi compaiono le leggi contro gli eretici, in conformità alle costituzioni di Federico II (1238-39) e di Innocenzo IV. Nel libro primo si leggono due articoli su questo argomento. Nel primo di essi il podestà promette di cacciare dalla città gli eretici a volontà del vescovo o del suo vicario e di distruggere le case dove si radunassero. Quest’ultima prescrizione era conforme all’articolo 26 della costituzione del papa Innocenzo IV del 1252. Il secondo articolo si riferisce all’esame ed alla condanna degli eretici: il podestà viene obbligato a punirli secondo le risultanze dell’esame fatto dal vescovo e dal podestà stesso cumulativamente, concessi al reo quindici giorni per l’abiura. Non si accenna alla pena, ma ben s’intende che essa è quella prescritta nelle costituzioni di Federico II, cioè il giudizio delle fiamme e la morte.


Posteriormente alla compilazione degli statuti di Mastino, ma forse non molto dopo e certamente prima della fine del secolo XIII, fu inserita nel volume statutario una costituzione del papa Alessandro IV (1254-1261), successore di Innocenzo IV; essa non è che un estratto della costituzione di quest’ultimo papa. La costituzione è diretta ai capi dei Comuni. Nel suo preambolo viene precisato che essa viene statuita “per estirpare in mezzo al popolo cristiano la zizzania dell’eretica pravità”. Le statuizioni sono sette: 
1) il podestà, il capitano, il rettore, i consoli eseguiscano le leggi canoniche e civili emanate contro gli eretici; 
2) il rettore, al principio del suo reggimento, confermi nella pubblica concione quanto i predecessori avevano bandito contro gli eretici, proibendo loro di abitare nella città e distretto, e confiscandone i beni; 
3) prevede la pena da applicarsi a coloro che libereranno un eretico o ne impediranno l’arresto, o l’ingresso nella casa o nel luogo dove stanno gli eretici; il reo, spogliato dei beni, sia relegato per sempre, e la casa distrutta;
4) il rettore costringa gli eretici, come i ladri e gli omicidi, senza taglio di membra e senza pericolo di morte, a confessare i propri errori, a denunciare gli altri eretici e i loro beni, nonché i ricettatori e difensori di eretici; 
5) importa l’infamia, cioè l’inabilità ai pubblici uffici, a far testimonianze, a difendersi in giudizio, per chi darà favore agli eretici; 
6) stabilisce che il rettore debba scrivere in quattro libri identici i nomi dei sentenziati per eresia; di essi, uno resti al Comune, uno al Vescovo, uno ai frati domenicani, uno ai frati francescani; i nomi degli eretici, con solennità, si leggano tre volte l’anno nella concione pubblica; 
7) si ritengano inabili agli uffici pubblici i figli ed i nipoti degli eretici.



Nel maggio del 1267 fu a Verona Armanno Pongilupo, un eretico ferrarese, morto in Ferrara due anni più tardi. Non tutti sapevano della sua eresia, e molti fra il popolo gli prestarono dopo la morte un vero culto; in vita era chiamato il santo. Si citarono miracoli verificatisi intorno al suo sepolcro, presso il quale, nella chiesa maggiore di Ferrara, si era eretto un altare votivo. L’Inquisizione sapeva che i suoi genitori erano stati  eretici, e che intorno a lui stesso si erano concepiti gravi sospetti. Nel 1254 era stato costretto all’abiura. Dopo la sua morte, l’Inquisizione condusse un lungo processo nei suoi confronti, durato dal 1270 al 1288. La sentenza definitiva, pubblicata soltanto nel 1301, ordinò la distruzione dell’altare e la dispersione delle ceneri di Armanno. Dal processo, messo alla luce dal Muratori, si ricavano molte notizie importanti anche per gli eretici di Verona. Alcuni testimoni attestarono in quali case fu accolto ed ospitato il Pongilupo e alcune delle persone con le quali si incontrò. Risulta che gli eretici veronesi erano in contatto con quelli di Sirmione, che erano tanto numerosi da avere un loro vescovo. A Sirmione si trovavano anche eretici  francesi e piemontesi. Dal processo Pongilupo si capisce che gli eretici veronesi avevano rapporti pure con quelli di Vicenza e di Ferrara. Sempre da quelle carte processuali veniamo a sapere che verso il 1269, secondo la deposizione di certa Filosofia da Verona, stava nelle carceri dell’inquisitore donna Spera, già damigella della marchese d’Este: era piena di ammirazione per il Pongilupo; la teste ne ascoltò le lodi dalla sua bocca; ed essa poi sapeva che la Spera, piuttosto che rinnegare le sue credenze, si lasciò bruciare.



Nel 1275 entrò vescovo di Verona il francescano fra’ Timidio, il cui nome è legato, per un fatto gravissimo, alla storia del patarinismo veronese.
Risulta che intorno al lago di Garda, e specialmente a Sirmione, i patarini avevano costituito alcune potenti comunità. Fra’ Timidio, prima di essere vescovo, era stato inquisitore dell’eretica pravità in Verona, ed è il più antico degli inquisitori di cui sia rimasto ricordo fra noi. Nell’aprile1273, fra’ Timidio si accordò con il podestà di Verona per inviare un messo al podestà di Lazise. Il messo stesso aveva catturato a Lazise certo Pietro, patarino di Montecchio nel vicentino. Si esigeva che il comune di Lazise inviasse il patarino Pietro sotto buona scorta a Verona dinanzi al podestà. Ma i capi di Lazise non obbedirono e lasciarono andar libero il patarino.
Nominato vescovo fra’ Timidio, divenne inquisitore in Verona fra’ Filippo Bonaccolsi, figlio di quel Pinamonte che il 15 febbraio 1276 si fece eleggere capitano del popolo in Mantova.
Sotto l’anno 1276 i cronisti veronesi segnano l’impresa fatta dal vescovo, dall’inquisitore e dagli Scaligeri contro gli eretici che si erano stabiliti ed organizzati in Sirmione. Fu una vera spedizione militare avvenuta nel mese di novembre 1276. Gli armati guidati dal vescovo fra’ Timidio, dall’inquisitore fra’ Filippo e da Alberto della Scala presero Sirmione il 12 novembre 1276, fecero 160 prigionieri tra eretici ed eretiche e li condussero a Verona per volontà di Mastino della Scala, che allora era signore di Verona.


Mastino della Scala venne ucciso a tradimento il 26 ottobre 1277. Tre mesi e mezzo dopo, cioè il 13 febbraio 1278, sotto la dominazione di Alberto della Scala, i prigionieri patarini subirono la pena di morte, bruciati nell’anfiteatro. Un cronista dell’epoca parla di circa duecento patarini. Esecutore fu il francescano fra’ Filippo, che dopo il fatto di Sirmione si era recato alla Curia di Roma ed era tornato a Verona per affrettarvi la morte degli eretici.


Il papa Nicolò III, con bolla del 27 giugno 1278, lodò Alberto della Scala, il di lui nipote Nicolò figlio del defunto Mastino, nonché gli altri due suoi nipoti Federico ed Alberto figli di Alberto detto il Picardo, per la loro devozione verso la chiesa romana; e, considerando che il detto Alberto e i defunti Mastino e Alberto detto il Picardo avevano agito virilmente nel fatto della cattura dei patarini che risiedevano in castro Sermionis, dona ai suricordati il castello d’Illasi, già edificato da Ezzelino.



Si conservano parecchi documenti che accennano a condanne per eresia nella stessa Verona. Si tratta di documenti che riguardano beni di condannati per eresia, posti all’asta dall’inquisitore e venduti dal podestà. La costituzione del papa Innocenzo IV del 1252 prescriveva che il prezzo dei beni così venduti venisse diviso in tre parti: la prima doveva andare al Comune, la seconda agli ufficiali ai quali dovevano essere demandati i processi, la terza a disposizione del vescovo e degli inquisitori per l’estirpazione degli eretici.

Nel secolo tredicesimo si comincia a trovare menzione dei patarini nelle locazioni. Il locatore obbligava il conduttore a non cedere il proprio diritto sulla cosa locata a certe determinate persone, tra le quali venivano elencati gli ebrei ed i patarini. Il locatore si poneva in guardia contro l’evenienza che i propri beni non venissero messi all’asta nel caso che il conduttore fosse caduto in eresia.



Una sentenza contro un morto in eresia fu pronunciata da frate Filippo il 28 gennaio 1288 nella chiesa di S. Fermo maggiore. Frate Filippo vi assume il nome di inquisitore apostolico dell’eretica pravità nella Marca trevigiana, esercitante il suo ufficio in Verona e diocesi. L’eretico è tale Bonaventura, contro il quale viene sentenziato che siano levate le sue ossa dal cimitero ecclesiastico per bruciarle e si dichiarano nulli gli atti da lui fatti dopo che era caduto nell’eresia. La sentenza si chiude con la dichiarazione che nessuno si presentò a difendere la memoria dell’eretico, quantunque fosse stato fatto pubblico editto in proposito. L’accusa mossa al condannato era questa: egli aveva visitato Bonaventura della Torre, vescovo patarino, Enrico da Valgatara e Giovanni da Minerbe, abitanti in Verona nella contrada di S. Nicolò; aveva prestato ad essi riverenza secondo il costume dei patarini ed aveva ascoltato le loro prediche; aveva pure prestato aiuto ad altri patarini. La sentenza è rogata da un notaio, che funge da scriba dell’ufficio d’inquisizione. L’inquisitore afferma d’essersi consigliato con il vescovo Bartolomeo della Scala, con prelati e chierici secolari, nonché con esperti di diritto. Molte persone assistevano alla lettura della sentenza e fra esse anche Ubertino da Romano dottore in legge e uomo d’autorità.

Parecchie condanne devono essere state pronunciate intorno a questo tempo. Ci resta l’atto pubblico con il quale, il 21 aprile 1288, il rappresentante del Comune di Verona e il suddetto frate Filippo costituirono uno speciale incaricato a far ricerca dei beni degli eretici, anche se fossero passati in altre mani, ed a venderli a profitto del Comune. Presente all’atto è Alberto della Scala.



Alla predicazione del vescovo patarino Bonaventura della Torre accennano altre due condanne.

La prima da ricordare è quella dei fratelli Zerli, abitanti in quella stessa contrada di S.Nicolò, nella quale sembra avessero posto il loro centro i Patarini. La famiglia Zerli aveva dato uomini illustri tanto alla fazione guelfa, quanto, e più, alla ghibellina. I condannati dall’inquisizione sono Ezzelino, Antonio e Riprando Zerli, tutti e tre defunti. La sentenza viene pronunciata solennemente il 23 dicembre 1293 nel coro della chiesa di S. Fermo maggiore dal frate francescano Antonio da Lucca, inquisitore nella Marca trevigiana. Sono presenti alcuni eminenti personaggi. Primo di tutti viene ricordato Bonincontro, allora arciprete della cattedrale e poi vescovo di Verona; egli era molto amico della famiglia scaligera. Seguono alcuni canonici, tra i quali certo Alboino della Scala; quindi il vicario del vescovo; poi un dottore in decreti e due dottori in legge, uno dei quali è Ubertino da Romano, che abbiamo già incontrato nella condanna di tale Bonaventura nel 1288.

La colpa dei fratelli Zerli, considerata gravissima, è di aver dato per lungo tempo ricetto nelle loro case ai patarini. Avevano ospitato il vescovo Bonaventura della Torre, Enrico da Valgatara, Martino Darinda, Giovanni da Minerbe ed altri ancora. La sentenza contro i fratelli Zerli comporta la confisca, cioè la vendita all’asta, dei loro beni e l’esumazione delle ossa degli eretici dal cimitero ecclesiastico.
Anche questa volta nessuno era comparso per prendere le difese della memoria degli eretici. L’inquisitore asserisce che, prima di pronunciare la sentenza, prese consiglio dal vicario del vescovo Pietro della Scala, nonché da prelati e da chierici secolari, e da versati in diritto.

Con atto separato, in data 4 aprile 1297, rogato nel convento dei frati francescani, si procedette alla vendita di parecchie possessioni degli Zerli, poste in Cerea. Dal tenore di questa vendita apprendiamo che un altro fratello Zerli, anzi probabilmente il maggiore d’età, di nome Guidotto, fu condannato per eresia. Vi si parla, infatti, dei beni confiscati ai fratelli Guidotto, Ezzelino, Antonio e Riprando. Probabilmente vi era stata un’altra sentenza.

Queste sentenze ci spiegano la causa e il modo per cui e con cui ebbe termine la grandezza di una delle più antiche e più potenti famiglie veronesi.



Un altro documento sulla presenza in Verona del vescovo patarino Bonaventura della Torre è la sentenza di condanna pronunciata l’ 8 aprile 1305, come di consueto, nella chiesa di S. Fermo maggiore, contro la memoria di Giovanni de Matro, della contrada dell’Isolo inferiore, di Verona, morto nell’eresia patarina.

La sentenza è pronunciata dal francescano fra’ Petrecino da Mantova, inquisitore apostolico in Verona e nella Marca trevigiana, il quale afferma d’aver prima chiesto il parere del vicario del vescovo Tebaldo, di religiosi sia prelati che secolari, nonché di persone versate in diritto. La condanna consiste nella esumazione del cadavere e nella confisca dei beni, poco dopo venduti dal podestà Giovanni de Caliginis padovano, a profitto del comune di Verona.

L’accusato aveva visitato il vescovo Bonaventura della Torre ed un altro vescovo di nome Bartolomeo Mitifogo nella casa dei Bavosi sul monte Bonosio. Pare che si tratti di una località o in Verona o nei suoi dintorni. Colà Giovanni aveva anche ascoltato le prediche di quei due vescovi ed aveva fatto loro riverenza secondo il costume dei patarini. Giovanni viene incolpato ancora di aver visitato Guglielmo della Torre ed il predetto vescovo Bartolomeo della Torre nella contrada di S. Nicolo, nelle case di Montorio de la Vecla.
Giovanni viene rimproverato di due eresie: di non credere nella resurrezione dei morti e neppure nell’esistenza dell’inferno e del paradiso; di dire che gli uomini muoiono come le bestie e che gli uomini morti giacevano come tronchi di legno. La seconda accusa riguardava l’usura che il patarino diceva permessa. E’ rimarchevole l’argomento messo in bocca la nostro Giovanni: come la concessione dell’uso di una casa frutta denaro al padrone della medesima, così la concessione dell’uso del denaro deve dare un frutto al padrone di quel denaro.



Più complete notizie sulle credenze patarine, e specialmente sulla setta dei leonini, abbiamo nella condanna pronunciata in Venezia, verso il gennaio del 1301, dall’inquisitore di quella città, il frate francescano Antolino da Padova, contro la memoria di un veronese colà stabilitosi e morto.

L’inquisitore non fa nessuna differenza fra patarini e leonisti, cioè i poveri di Lione. Secondo il solito, l’inquisitore dice di pronunciare la sentenza dopo avere in proposito interpellato il vescovo, che qui è Bartolomeo Querini vescovo di Castello, oltre ad altri savi sia religiosi sia periti in leggi.

L’eretico era certo Deiano de Raymundino, mercante di panni, il quale aveva ospitato nella sua casa eretici ed eretiche ed aveva loro somministrato vitto e vestito. Tra essi vengono nominati: Gabriele de Capra, cremonese e vescovo della setta dei leonisti, che vi aveva ricevuto l’imposizione delle mani, ossia il battesimo di Spirito Santo, onde erano rimessi i peccati secondo la credenza patarina; Dalida e Anastasia veronesi, che avevano pure ricevuto l’imposizione delle mani; Bonaventura de Montanario, di cui si tace la patria, ma che probabilmente era anch’egli veronese.
Le credenze di Deiano servono di lume per intendere quelle della chiesa patarina veronese, perché è probabile che egli si fosse formato alla scuola veronese. Nella sentenza di condanna gli viene rimproverata la stima che faceva della vita e della fede dei patarini ed il disprezzo in cui teneva i frati ed i preti della chiesa romana, dei quali affermava che era ridicolo quanto dicevano. Deiano impugnava la transustanziazione dell’ostia consacrata, dando per motivo che i sacerdoti, creati dal diavolo, non potevano consacrare il corpo di Cristo.

Nel seguito della sentenza l’inquisitore rimprovera a Deiano di ammettere il principio dualistico, cioè il malus deus accanto a Dio. Dio non creò il diavolo né s’intromette nelle cose dal cielo in giù; tutte queste cose mondane sono state create dal diavolo: se Dio avesse creato il diavolo, si sarebbe fatto partecipe di tutti i mali che avvengono in terra.  Il documento c’informa del motivo che adducevano i patarini per sostenere il loro dogma: era la difficoltà di spiegare l’esistenza del male, mentre ripugnava l’attribuire a Dio il male operato dal demonio o che avveniva nel mondo.
Ultima dottrina condannata in Deiano è quella secondo la quale il giuramento è sempre peccato mortale.

Fonte: NP dig. da internet



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