sabato 10 ottobre 2009

Cavour e il connubio Rattazzi; i conflitti di interessi: la politica di prostituisce




RISORGIMENTO.   L’ALTRA VERITA’

Lo hanno chiamato “decennio di preparazione” perché - con il senno del poi - è stato giusto il tempo che servì al Piemonte per riuscire a battere l’Austria e diventare Italia.

Si disse che migliorarono l’agricoltura e potenziarono il trasporto ferroviario, che irrigarono le risaie con canali appropriati  e consentirono lo sviluppo del porto di Genova, che determinarono regole moderne per le banche e incrementarono gli scambi commerciali con il resto d’Europa. Anche.  Ma, soprattutto, inventarono il “ribaltone” parlamentare, diedero corpo al  “conflitto di interesse” e avviarono il finanziamento delle missioni militari all’estero.  Fondamentale per diventare Italia,  per davvero.

La politica stava cercando le regole per inventare se stessa. La Presidenza del Consiglio era stata, affidata a Massimo  d’Azeglio ma - il rampante del Governo  si chiamava Camillo Benso ed era conte di Cavour:  un impiccione di genio,  un secchione con la testa sempre affondata nelle carte, preparatissimo su ogni questione  tanto puntiglioso da intervenire,  alla Camera, anche sette-otto volte sullo stesso argomento,  per rispondere alla più piccola contestazione e assicurarsi  l’ultima parola.

CAMBIO DELLA GUARDIA PER NIENTE INDOLORE

Sgomitò,  allargando le proprie competenze e tagliando l’erba sotto i piedi dei concorrenti,  finché non soffiò il posto al d’Azeglio che l’aveva chiamato.

Il cambio della guardia non risultò indolore.  Cavour ce l’aveva fatta a sedersi sulla seggiola di Presidente del Consiglio e,  una volta diventato il numero uno, si organizzò in modo da crearsi una sua corrente politica di fedelissimi.  Alcuni compagni di strada “moderati” che pure militavano nel suo stesso gruppo di riferimento politico non gli piacevano.  Avrebbe preferito allearsi con gli uomini di Urbano Rattazzi - anche se stavano all’opposizione - e a loro faceva l’occhiolino.  Si mandarono messaggi sempre più espliciti, si incontrarono in gran segreto e fecero incontrare i rispettivi capigruppo. Il reciproco avvicinamento non poteva passare inosservato.  Venne rivelato, senza equivoci, nel corso di una serie di votazioni nel corso delle quali la minoranza si trovò a votare con la maggioranza al punto che l’accordo realizzato sottobanco fu scoperto, diventando di dominio pubblico.

L'operazione politica che aveva caratterizzato l’alleanza Cavour- Rattazzi ha finito per essere presentata come la scelta lungimirante di uno stratega del gioco parlamentare, mentre fu tutt’altro

L’onorevole Ottavio Thaon di Revel si incaricò di togliere il velo all’ipocrisia parlamentare e commentò con sarcasmo.
«Io - esordì - rispetto le opinioni di tutti ma,  appunto perchè ne ho una mia, la dico. Questo voto indica che il Governo ha cambiato politica e ci annuncia un nuovo connubio».

Connubio” è un termine che ha avuto fortuna, entrando nella storia per la porta principale con una quantità di commenti positivi a proteggerlo.  Ha indicato l’alleanza fra Cavour e Rattazzi e l’operazione politica che lo aveva caratterizzato ha finito per essere presentata come la scelta lungimirante  di uno stratega del gioco parlamentare.  Come se quella svolta geniale avesse rappresentato la svolta verso la modernità.  Basta con la politica di piccolo cabotaggio, chiusa e provinciale e avanti - finalmente! - verso orizzonti  più aperti.

In realtà “connubio” era una brutta parola che (anche se non detto esplicitamente)  sottintendeva “carnale”.  E “connubio carnale”  significava fare l’amore ma non quello lecito, coniugale e rispettato, quanto piuttosto quello che aveva luogo con le donne di malaffare.
Nelle parole di Thaon di Revel («avete fatto un nuovo connubio») doveva intendersi: siete delle prostitute della politica e non avete il pudore di vendervi e comprarvi.  Con il tempo, il Parlamento ha preso atto delle giravolte di chi prometteva di atteggiarsi  in un certo modo per poi comportarsi diversamente, tradendo la fiducia che  aveva chiesto e promesso agli elettori.

Arrivarono i “trasformisti” di Depretis, i “governativi” di Giolitti, gli uomini del penta partito, dei centro-sinistra e dell’unità nazionale.  A ogni formula corrispondeva un piccolo o un grande “ribaltone”.  Significava  che un gruppo significativo di deputati decideva di sostenere le persone che, con gli elettori, si era impegnato a contrastare.

Più recentemente, Silvio Berlusconi, allora capo dell’opposizione, denunciò “il mercimonio” di un gruppo di onorevoli che si riconoscevano nelle posizioni di Clemente Mastella i quali lasciarono lo schieramento che li aveva presentati per transitare nel gruppo che si definiva “Ulivo”.  In campagna e1ettorale lo avevano  osteggiato ma, a risultato ottenuto, con il loro sostegno, gli consentirono di ottenere il voto di fiducia.

Sembrò che  “mercimonio”  fosse un termine smodato dal momento che richiamava un commercio sconveniente.  In effetti l’espressione era grave ma veniva dalla storia.

QUEL MERCIMONIO  ANOMALIA ITALIANA

Quando  Clemente Mastella  ritornò sui suoi passi abbandonando l’Ulivo per riprendere a collaborare con il centro-destra si invertirono le parti: lamenti, con strazianti distinguo, degli ultimi abbandonati e difesa vigorosa dei neo-amici.

Paolo Mieli, giornalista ed editorialista, direttore rispettato de La Stampa e del Corriere della Sera acutamente insiste nel rilevare che questa è stata la vera anomalia italiana. In tutto il mondo le maggioranze di Governo si presentano alla gente elencando quanto sono riuscite a realizzare nel  corso del loro mandato parlamentare.

Se convincono gli elettori della bontà delle loro azioni, ottengono i voti per continuare nella loro azione politica: altrimenti vengono sconfitti alla urne, altri succedono loro al Governo mandandoli all’opposizione da dove ricominciano daccapo per riconquistare le posizioni perdute.

In tutto il mondo ma non in Italia dove le alleanze - anche quelle in contraddizione con i programmi annunciati - si sono sempre realizzate nel cuore della legislatura, chiedendo poi alle elezioni successive una sorta di ratifica che, opportunamente  preparata, è quasi sempre venuta.

Questo per tutta la storia d’Italia,  con la prima Repubblica e l’inizio della seconda. Uniche eccezioni: le soluzioni parlamentari adottate in seguito alla marcia su Roma e all’inchiesta del pool “mani pulite”  ma - sottolinea Mieli - in un secolo e mezzo abbondante si tratta di due eventi straordinari,  proprio come sarebbe l’ infarto per una persona fisica.

CONFLITTO DI INTERESSI DI CAVOUR

Nel 1853, Camillo Benso conte di Cavour,  astro nascente della politica sabauda, era già Presidente del Consiglio dei ministri, manteneva il dicastero  dell’Agricoltura e figurava come principale azionista della “Società anonima dei molini anglo-americani”.  Guarda un po’ dove si deve cominciare per incontrare il “conflitto di interessi”.

Quello fu un anno di crisi. Nelle campagne scarseggiò il raccolto e non c’era grano sufficiente per i bisogni della gente.

Rispettando i meccanismi della legge della domanda e dell’offerta, i prezzi della farina salirono alle stelle, mettendo in serie difficoltà gli strati più deboli ed emarginati della popolazione che non aveva denaro sufficiente  per comprarsi il pane.

Era una carestia di dimensioni internazionali che coinvolse tutta l’Italia e il Sud Europa.

I Governi degli altri Paesi risposero all’emergenza bloccando l’esportazione del grano per congelare i prezzi.

COSI’ IL LIBERISMO ARRICCHI' IL CONTE

Il Piemonte, invece, fedele alle dottrine “liberiste” lasciò che i proprietari commerciassero come meglio credevano e dove loro maggiormente conveniva.  Il grano, in casa, mancò ancor di più ma, oltre confine, realizzarono guadagni anche esorbitanti.  Cavour che, fra i padroni, era  il più padrone, mise da parte un piccolo tesoro.

Lui sempre pingue egli altri a morire di fame?  Una folla- esasperata  perché affamata - inscenò una manifestazione  di protesta sotto le finestre  dell’ufficio del primo Ministro,  davanti al palazzo del Governo, ma venne affrontata con durezza inopportuna dai carabinieri che mandarono i più agitati sia in ospedale che in prigione.

Due giornali – L’imparziale e La voce della libertà - accusati di aver istigato i rivoltosi vennero denunciati e trascinati in tribunale.  Gli imputati vennero poi tutti assolti e Angelo Brofferio su un altro periodico - La voce - rilevò che   «il  conte di  Cavour è un magazzini di grano  e di farina, contro il precetto della moralità e della legge».   Aggiunse che, con la sua amministrazione «ingrassavano illecitamente i monopolisti, i borsaioli, i telegrafisti e gli speculatori sulla pubblica sostanza mentre geme, soffre e piange l’universalità dei cittadini, sotto il peso delle tasse e delle imposte».  Infine giudicò un  « atto  barbarico» l’aggressione delle forze dell’ordine nei confronti di cittadini che stavano manifestando pacificamente.

Cavour e i suoi su successori governarono con un cinismo più proprio degli uomini di banca che dei patrioti.  Predicavano l’ideologia del mercato senza barriere - aperto e,  addirittura spalancato  nel caso della carestia di grano - perché i loro interessi li portavano a vendere la loro merce all’estero.

Ma per i prodotti farmaceutici di fosforo, tutto il contrario,  scelsero il protezionismo più rigoroso e fecero applicare tasse doganali elevatissime tanto da scoraggiare qualunque tipo di importazione. Una contraddizione appariscente: eppure, spiegabilissima.  Cavour aveva forti interessi anche in aziende che producevano prodotti chimici per la medicina e,  piuttosto che accettare elementari regole di concorrenza in grado di calmierare le tariffe,  preferiva vendere a caro prezzo la sua merce e guadagnarci un po’ di più. Attorno al conte Camillo di Cavour si era formata una piccola ma agguerrita schiera di affaristi che si muovevano in equipe e che trovavano il  sistema di guadagnare per ogni operazione.  Anche le “Tangentopoli” moderne hanno i loro precedenti storici illustri.

SPECULATORI SENZA SCRUPOLI

Cavour  venne  accreditato di un patrimonio liquido di 25 milioni di lire, mentre 85 sparirono dalle casse dello Stato

Inseguendo le speculazioni più semplici, suggerite dai disegni di legge in preparazione, gli  amici del conte diventarono facilmente milionari.  Lo stesso Cavour veniva accreditato di un patrimonio liquido pari a 25 milioni.  «Ma probabilmente, a quei soldi, occorre aggiungerne molti altri nascosti nella nebbia»

Il Piemonte si avviava a diventare Italia.

Tanto scrupolosi per i conti personali di famiglia, i politici sembravano assai disattenti quando si trattava del bilancio dello Stato al punto che tasse e prestiti non facevano che rincorrersi,  senza nemmeno avvicinarsi. Nei 34 anni intercorsi fra la caduta del Regno di Napoleone Bonaparte e la prima Guerra d’indipendenza   il Piemonte accumulò  135 milioni di debiti.  Nei dodici anni successivi al  1848   con il periodo “di preparazione”  superò il miliardo: 1.024.970.595 lire piemontesi (di allora).

Il  giornale  L’Armonia censurò le spese allegre che venivano decise: « il  ministro domanda imprestiti e progetta imposte. La Camera discute, vota e approva. I contribuenti pagano»

Questioni vecchie di un secolo e mezzo o problemi del tutto contemporanei e, quasi, attuali?  L’Italia che tanto ci fa arrabbiare  da qualche  parte ha cominciato.

Il  quotidiano approfondì la polemica. “Esamineremo - si propose l’editorialista - le nostre finanze sotto l’assolutismo confrontandole con quelle sotto la libertà».  Paragone, in realtà, improponibile.

«La regola dei Governi assoluti consisteva nello spendere meno di quello che si incassava. Non c’erano tante cattedre di  professori e di economisti ma in compenso, in cassa, c’erano tanti bei soldini».

LA VORAGINE NEL BILANCIO

Nel 1847 l’attivo toccava i  41 milioni che si trasformarono prima in un “buco” nel bilancio e poi in una voragine.  «In sei anni, dal 1848 al 1854, furono contratti prestiti per 503.252.161 lire con un aggravio annuo di interessi passivi di 28.901.443 che si debbono sborsare ai mutuanti».  Finanza allegra e distratta.  «Eravamo debitori di 503 milioni ma nelle casse dello Stato ne erano entrati solo 418.  Dunque erano 85 quelli andati in evaporazioni».  Rubati strada facendo. «Chi tocca quei bei milioni  (e taluno li tocca perché nelle pubbliche casse non c’ erano), ha ragione di parteggiare per il sistema degli imprestiti! ».

DURA OFFENSIVA CONTRO LA CHIESA

Si tentò di rimediare al deficit spaventoso che andava crescendo espropriando i beni ecclesiastici ma i risultati furono irrilevanti.  Nell’erario entrarono pochi spiccioli ma una quantità, di signori riuscì ad arricchirsi comprando all’asta - a poco prezzo - patrimoni immensi.

Nel 1867 vennero alienati circa 7.000 lotti di terreno appartenenti a congregazioni religiose per un ricavo di 57 milioni: un’inezia, tenendo conto del potere d’acquisto della moneta. L’anno successivo i lotti furono 26mila e l’incasso 162 milioni,  in proporzione dunque ancora meno.

Pochi latifondisti ebbero la possibilità di ingrandire i loro patrimoni. Alcune congregazioni religiose che concepivano il loro apostolato come carità al prossimo furono costrette a sciogliersi.  Decine di migliaia di poveri che venivano assistiti da religiosi si ritrovarono ancora più poveri: senza sapere a chi rivolgersi per ottenere un briciolo d’aiuto.  Forse è eccessivo sostenere la tesi secondo la quale il Risorgimento - altro che amor di Patria - diede corpo a un grande complotto ordito contro la Chiesa e che,  per azzopparne  il potere spirituale, si tentò di togliere ad essa ogni  proprietà e persino ogni mezzo materiale  per sopravvivere.  È, però, certo, che le Guerre d’Indipendenza le pagarono i frati, i preti e le suore con i loro beni e i loro sacrifici.  Sostenevano - i liberaloni di allora -  che il clero doveva limitarsi al potere sullo spirito e sulle anime e che, dunque, per conseguenza logica, non doveva avere nemmeno un tetto sopra la testa.  Portar loro via tutto risultava, dunque, onesto e, quasi, doveroso.  I padri della patria, con figli, nipoti, amici e amici degli amici, rivelarono un anticlericalismo forsennato e,  nei passaggi più significativi,  affatto plausibile. Sostenevano lo slogan della “libera Chiesa in libero Stato”  ma, all’atto pratico, la loro libertà assumeva fisionomie sempre più ampie e invasive mentre quella  degli altri era costretta a rimpicciolirsi fino a ridursi ai minimi termini.

Senza nemmeno badare a un briciolo di coerenza di facciata.  Perché tutti questi mangia-preti volevano morire in grazia di Dio e si lamentavano e piagnucolavano se un sacerdote,  senza che ci fosse un atto di pentimento esplicito, negava l’assoluzione dei peccati e l’estrema unzione.   E qualcuno arrivò a mettersi d’accordo con  un prete compiacente e amico in modo da poter morire con il conforto della benedizione religiosa e con tutti i sacramenti al loro posto.
Avevano passato la vita truffando e facendola franca: pensavano di poter comportarsi allo stesso modo con il Padre Eterno.

La gente imparò che ci si doveva arrangiare  come meglio si poteva. In città e nelle campagne dove l’onestà era un punto d’onore - ancor prima che una regola di vita - cominciarono a scorazzare gruppi di briganti.  Prendevano tutto quello che capitava loro nelle mani.  «I malviventi - pubblicò La Stampa - riuscirono a involare le toghe dei giudici»  che li dovevano processare per i furti commessi precedentemente.  Il Piemonte si avviava a diventare Italia.  Si trattava di ottenere  una seggiola in  Europa, al tavolo dei grandi e dei grandissimi ma il Governo di Torino, con pochi milioni di abitanti e un’economia allo stadio pre-industriale, non poteva tenere il  passo con Francia, Inghilterra, Austria o Russia che rappresentavano potenze di ben altre dimensioni.

(5 e 6 - Continua)

Fonte: Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì  29 settembre 2009, pag. 11- 12 - 13.

Nessun commento: