mercoledì 16 dicembre 2009

Il futuro passa dalle lingue regionali




Sabino Acquaviva

Professore Acquaviva, questa settimana in Venerdì di Repubblica dedica un servizio di copertina al dialetto, con la chiave “se lo parliamo tutti, come facciamo a capirei?”. Come risponde?

«All’inizio del Rinascimento esistevano le lingue regionali - veneto, toscano, provenzano, catalano e via dicendo - e una lingua veicolare, comune, che era il la tino. Poi in ogni area geografica una lingua regionale si è imposta sulle altre e sono nate le lingue nazionali: il castigliano è diventato lo spagnolo, il francese del Nord è diventato il francese e così via. Sono seguiti tre secoli di guerre violentissime. Ora cosa dovremmo fare: tornare indietro? No, guardare avanti. Noi abbiamo bisogno degli Stati Uniti d’Europa, perché Paesi di 50-60 milioni di abitanti non possono competere con colossi come Cina e India, che hanno ritmi di espansione 8-10 volte superiori».

Ma tutto questo cosa c'entra con le lingue?

«C'entra, perché l’unificazione del continente passa attraverso l’indebolimento delle lingue nazionali e la riscoperta di culture e lingue regionali. Questo lavoro di riscoperta guarda al futuro, non al passato, alla costruzione di una nuova grande Europa. Non ha senso dire: dobbiamo parlare l’italiano, cioè il toscano. Quando l’Italia si troverà di fronte all’India e alla Cina, seguire questa politica tradizionale vorrà dire decretare la nostra fine. Mentre le lingue regionali aiutano a preparare il futuro perche l’unità dell’Europa la faranno i popoli, non gli Stati nazionali»
.
Perché la sinistra, anche attraverso i suoi giornali, è cosi  ostile  nei confronti delle lingue e più in generale delle culture locali?

«Da un certo punto di vista è strano, perché  la sinistra era internazionalista, quindi fin dall’inizio avrebbe dovuto essere la prima a non difendere l’italiano - che poi è anch’esso una lingua regionale - ma le diverse lingue regionali. Invece ha sposato l’ideologia liberale partita dal Piemonte, che attraverso il pugno di ferro dei prefetti ha imposto, in nome dell’unificazione, il primato dell’italiano e la cancellazione delle lingue locali».

Eppure in certe regioni è il centrosinistra a tutelare le parlate locali, com’era nel Friuli di Illy e com’è ora nella Campania di Bassolino...

«Proprio non si capisce perché fanno una politica contro la rinascita delle strutture regionali. Non dimentichiamo che l’Italia è stata fatta dai piemontesi con la forza».

Ma c’è anche chi confonde lingue e dialetti, vero?

«Su questo c’è una  grande confusione. I dialetti in Italia saranno 140, e può darsi che a parlarli non ci si capisca; ma per contare le lingue regionali è sufficiente una mano».

E all'estero, come dovremmo parlare?

«Siccome non si può recuperare il latino: a scuola occorre insegnare l’inglese a tutti e le lingue regionali nelle loro regioni. Il  veneto, per esempio, è stata una lingua internazionale per secoli, tanto che ci venivano scritti i trattati internazionali».

Ha citato la scuola. La salvezza delle parlate locali passa da li?

«È evidente che una lingua che non viene insegnata a scuola è una lingua minoritaria che muore. Com’è successo con il processo di francesizzazione della Corsica, quando i genitori insegnano ai figli a parlare la lingua dell’occupante, per quel popolo è la fine».

Quanto si fa, oggi, a livello politico per difendere questo patrimonio culturale?

«Qualcosa si fa, sia per le culture regionali che con il federalismo fiscale. Ma serve  una politica molto precisa, funzionale a costruire il futuro a partire dalla scuola, che secondo me non si è ancora adeguata alla drammaticità della situazione:  Tra 20-30 anni, se non insegnate a scuola, le lingue regionali spariranno. C’è ancora tempo per provvedere. Ma bisogna agire subito».


Fonte: srs di Andrea  Accorsi; da La Padania di venerdì 25 settembre  2009; pag. 20

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