mercoledì 20 gennaio 2010

Come si riconosce un buon giornalista





Le uniche qualità per avere successo nel giornalismo sono un' astuzia da roditore, modi accettabili e un po' di abilità letteraria.
(Nicholas Tomalin)

Gli eroi del giornalismo sono i cronisti. Quello che fanno è scoprire le cose. Arrivano per primi, nel caos del presente, battendo alle porte chiuse, a volte correndo dei rischi, e catturano l'inizio della verità. Se non lo fanno loro, chi dovrebbe farlo? I direttori? I commentatori? C'è una sola alternativa ai cronisti: accettare la versione ufficiale, quella che i poteri economici, i burocrati e i politici scelgono di darci. Dopotutto, senza i cronisti, che cosa saprebbero i commentatori?

I cronisti, come quasi tutti gli eroi, sono imperfetti. Come categoria, hanno una reputazione peggiore di molte altre: una buona parte di loro ha l'abitudine di esagerare, semplificare e distorcere la verità per costruire una specie di favola con disonestà calcolata. Non per nulla, sceneggiatori e drammaturghi in cerca di un cattivo da disapprovare di solito optano per il cronista di un giornale scandalistico. Risparmiano tempo. Non devono sprecare pagine e pagine a dimostrare che manca di morale, basta semplicemente dire che lavoro fa perché il pubblico capisca subito che quel personaggio è pronto ad adulare e ingannare. Poi ci sono i pigri, quelli che preferiscono la pappa pronta e le semplificazioni, piuttosto che il duro, faticoso e spesso rischioso lavoro di avvicinarsi il più possibile alla verità. La storia del giornalismo è sicuramente lastricata di malafede calcolata e lavoro scadente.

Ma c'è anche tanto di eroico, e assai più di quanto i critici dei mezzi di informazione e le scuole di giornalismo vogliono far credere ai neofiti.
C'è la denuncia di John Tyas sul «Times» delle atrocità commesse dagli inglesi contro i manifestanti di Manchester nel 1819;
ci sono i racconti di William Howard Russell dei pasticci combinati dall'esercito britannico in Crimea;
le cronache di William Leng per lo «Sheffield Telegraph» sulla corruzione e la violenza della città (aveva ricevuto così tante minacce che teneva un revolver carico sulla scrivania e la polizia lo scortava fino a casa ogni sera);
c'è Emily Crawford, che rischiò giorno dopo giorno la vita per raccontare la Comune di Parigi del 1871 sul «Daily News» e ne informò per prima tutto il mondo alla successiva conferenza di Versailles;
c'è Nellie Bly, che si finse malata di mente per entrare in un manicomio: vi scoprì orrori e crudeltà e li descrisse in una serie di articoli sul «New York World» che aiutarono a migliorare le condizioni degli internati;
ci sono i reportage di W.T. Stead della «Pall Mall Gazette» sulla prostituzione infantile; e gli articoli di Ida Tarbell sul «McClure's Magazine» che documentarono i casi di corruzione e intimidazione della Standard Oil Company nel 1902-1904, preparando la strada alla chiusura dell'azienda.

Ci sono poi Emilie Marshall, che abbatte diversi steccati maschilisti diventando la prima giornalista accreditata alla Camera dei Comuni e la prima redattrice sia al «Daily Mail» sia al «Daily Express»;
le cronache della rivoluzione russa di  John Reed;
le rivelazioni di Roland Thomas del «New York World» sulle violenze razziste del Ku Klux Klan;
la rivelazione da parte del giornalista freelance George Seldes dei rapporti tra fumo e cancro al polmone - dieci anni prima che la stampa tradizionale ne parlasse.
I reportage di Il'ja Erenburg sulla «Krasnaja Zvezda», in cui per primo descrisse i campi di sterminio nazisti;
quelli di John Hersey e Wilfred Burchett da Hiroshima, che smentirono le menzogne ufficiali secondo cui non si erano verificati casi di malattia da radiazioni;
la coraggiosa opposizione dell' «Observer» e del «Manchester Guardian» all'invasione di Suez nel 1956;
la battaglia - e la vittoria - di Alice Dunnigan contro il pregiudizio razziale per lavorare come cronista a Washington negli anni Cinquanta;
l'incessante ricerca di violazioni alla massima sicurezza, lanciata dall'intera stampa britannica nei primi anni Sessanta;
la scoperta da parte di Seymour Hersh, all' epoca un giovane freelance, degli orrori del massacro di My Lai nel 1968;
la campagna del «Sunday Times» sulle vittime del talidomide, i bambini nati senza arti;
l'indagine sul caso Watergate di CarI Bernstein e Bob Woodward per il «Washington Post», con la quale dimostrarono che il presidente degli Stati Uniti era bugiardo e corrotto;
gli articoli di Randy Shilts per il «San Francisco Chronicle» sull'emergenza Aids che costrinsero le autorità sanitarie a rendersi conto del problema;
e il rifiuto dell'inviato dell' «Independent» Robert Fisk di accettare la linea della Nato (o di chiunque altro) sulla guerra del Kosovo nel 1999 e sui conflitti ancora in corso in Medio Oriente.

Ci sono anche quelli i cui nomi vengono letti di sfuggita e di rado ricordati; quelli i cui sforzi per informare i lettori si scontrano non con ostacoli ufficiali o risposte evasive, ma con l'intimidazione.  O peggio. Ogni anno, migliaia di giornalisti vengono arrestati e minacciati, centinaia vengono imprigionati, e molti uccisi. Nella sua forma più estrema, può diventare quella che la giornalista peruviana Sonia Goldenburg ha chiamato «censura della morte».
Nel 1994, ben 103 giornalisti sono morti per essersi avvicinati troppo alla verità. Alla fine del ventesimo secolo il numero delle vittime si era ridotto per poi risalire nel 2005, con 63 giornalisti e cinque collaboratori uccisi, 807 arrestati e 1308 aggrediti o minacciati. Ognuno di loro è la risposta definitiva a chi, dentro e fuori la categoria, pensa che il giornalismo sia un segmento del marketing che riorganizza le banalità e le trasforma in esagerazioni. Dopotutto, nessuno si prenderebbe il disturbo di ostacolare, imprigionare o assassinare qualcuno soltanto per questo.

Ci sono infine le decine di migliaia di altri giornalisti, spesso locali, il cui compito non è niente di più affascinante o eroico che scoprire la versione più esauriente di quanto è accaduto dalle loro parti e raccontarlo. Non si aspettano ricchezza o gloria, non c'è motivo perché debbano averle. Ma sono comunque un antidoto, sociale e professionale, contro quelli che hanno venduto la loro credibilità per uno stipendio più alto o una vita più facile.

E tutti questi bravi cronisti hanno qualcosa in comune. Anche se sanno nasconderlo bene sotto la maschera del duro, obbligatoria per la loro professione, che siano immortali, perseguitati o misconosciuti, condividono tutti la stessa convinzione sulla natura del loro lavoro.
Bisogna soprattutto fare domande, e in questa maniera riuscire a:
- scoprire e pubblicare informazioni che vadano a sostituire voci e illazioni;
- resistere ai controlli governativi o eluderli;
- informare l'elettore dandogli così maggior potere;
- rovesciare coloro la cui autorità dipende dalla mancanza di informazione del pubblico;
- analizzare quello che fanno e non fanno i governi, i rappresentanti eletti e i servizi pubblici;
- analizzare l'attività imprenditoriale, il trattamento che riserva a lavoratori e consumatori e la qualità dei prodotti;
- confortare gli afflitti e affliggere chi vive nel comfort, dando voce a quelli che di solito non possono far sentire la loro;
- mettere la società davanti a uno specchio, che rifletta le sue virtù e i suoi vizi, ma sfati anche i suoi miti più cari;
- assicurarsi che giustizia sia fatta, che lo si sappia in giro e che in caso contrario si indaghi;
- promuovere il libero scambio di idee, dando soprattutto spazio a coloro la cui filosofia è diversa da quelle dominanti.

Se riuscite a leggere questa lista senza sentire un brivido lungo la schiena, forse il giornalismo non fa per voi.

QUALITA’

Raggiungere regolarmente gli obiettivi che abbiamo elencato è difficile. Con la capacità di scrivere, che molti fuori dal mondo del giornalismo ritengono sia una qualità fondamentale per un cronista, non si arriva neanche a metà dell'impresa. L'abilità letteraria è solo una componente del mestiere, e spesso neanche la più importante. Per diventare un buon giornalista non basta nemmeno acquisire un piccolo bagaglio di trucchi e stratagemmi, tra cui scegliere quello giusto a seconda delle circostanze. Ciò che serve sono le qualità e il carattere.
Lo strumento più importante di un giornalista è nella sua testa. Alcune di queste qualità sono istintive, altre si imparano in fretta, ma la maggior parte si costruisce in anni di esperienza - indagando e scrivendo, indagando di nuovo e riscrivendo centinaia e centinaia di articoli.
Il giornalismo è uno di quei mestieri che si imparano sbagliando. Nella mia prima settimana da cronista, ad esempio, lavoravo in un piccolo settimanale nell'Inghilterra meridionale e, un po' per fortuna, un po' perché ero deciso a farmi notare, mi imbattei in una buona storia sull'inquinamento di un fiume. Andai sul posto, feci la mia inchiesta e poi tornai di corsa in ufficio sognando gli elogi che avrei ricevuto alla consegna del pezzo. «Che diavolo è questo?», urlò il redattore capo quando lesse l'articolo, «Dove sono i nomi?». Ero così emozionato dalla mia scoperta che avevo dimenticato di chiedere il nome delle persone che avevo intervistato. C'erano molte dichiarazioni interessanti ma erano tutte attribuite a «cittadini preoccupati», «ingegneri idraulici», «ispettori della sanità», e così via. Passai le ventiquattr’ore successive a correre in giro, chiedere i nomi, intervistare di nuovo la gente e rimediare a buona parte dei miei errori. Quella settimana il mio articolo apparve in prima pagina. Da allora, sono sempre stato grato alla mia stupidità, perché mi ha permesso di imparare due cose preziose proprio nella mia prima settimana.
Una è che le dichiarazioni non servono a nulla se restano anonime. L'altra, ancora più importante, è che il lavoro del giornalista è molto difficile.
Essere entusiasti e avere una buona laurea non è affatto sufficiente, bisogna anche avere le qualità giuste. (...)


Fonte: srs di David Randall, tratto  da “Il giornalista quasi perfetto”  edizione 2009;  editore Laterzia

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