mercoledì 27 gennaio 2010

STORIA DELLA CHIESA ANTICA (6): DA DECIO A COSTANTINO - LA QUESTIONE DELLA DATA PASQUALE





Storia della Questione della Data Pasquale


I conflitti che caratterizzano la seconda metà del II secolo non hanno visto impegnati soltanto dei gruppi estremisti e l’insieme della Chiesa. Nella questione della Pasqua, sono di fronte le stesse chiese sorte da tradizioni  diverse.
La chiesa asiatica, nell’insieme, seguendo la tradizione giovannea, celebrava la Pasqua del Salvatore lo stesso  giorno dei Giudei, e cioè il quattordicesimo giorno della luna del mese di Nisan. È la pratica quartodecimana. Si ritrovava in certe comunità giudeo-cristiane, in particolare in Palestina e nella missione palestinese.
Ma la maggioranza  dei cristiani, al di fuori dell’Asia, celebrava la festa la domenica dopo il quattordicesimo giorno della luna.
Come abbiamo detto, questa probabilmente non era che la continuazione della festa giudaica delle Primizie, che inaugurava la festa delle Settimane. L’ideologia pasquale paolina sembra conservare il ricordo di questa coincidenza.


Il problema di questa diversità di pratica si era posto ben presto. Già sotto il papa Sisto, verso il 120, nella comunità di Roma era scoppiato un conflitto tra i Romani e gli Asiatici, terminato poi con un accordo di tolleranza  reciproca. Lo stesso conflitto si era riacceso in occasione della visita di Policarpo, vescovo di Smirne, a Roma, sotto Aniceto (155-166). Ireneo ne parla in una lettera tramandataci da Eusebio. Rileva che Aniceto non riuscì a persuadere  Policarpo a non osservare il quattordicesimo giorno, poiché questa era l’usanza «di Giovanni e degli altri Apostoli con  cui era vissuto». Policarpo dal canto suo «non poté ottenere da Aniceto che abbandonasse l’usanza dei presbiteri che lo  avevano preceduto» (Hist. eccl., V,24, 16). Si separano tuttavia in pace.
La questione dovette riproporsi di frequente.  Ireneo scrive infatti a Vittore: «I presbiteri che precedettero Sotero alla direzione della Chiesa che tu oggi governi, cioè  Aniceto, Pio, Igino, Telesforo, Sisto, pur non osservando loro stessi il quattordicesimo giorno, non ne hanno proibito  l’osservanza a quelli che provenivano da cristianità nelle quali quest’osservanza era una consuetudine » (Hist. eccl.,
V,24, 14).


Da quanto risulta dal testo di Ireneo, pare che la questione si sia aggravata sotto Sotero (166-174). È allora che sempre per questa questione Biasto si trova in scisma a Roma con Eleuterio.
Sotto Vittore (189-199), in diverse località  si riunirono dei sinodi per esaminare la questione e comunicarono in seguito per lettera alle altre chiese le loro  decisioni. Eusebio ebbe occasione di consultare nella biblioteca di Cesarea la lettera dei vescovi di Palestina, quella del  sinodo di Roma, presieduto da Vittore, un’altra del sinodo dei vescovi del Ponto, presieduto da Paimas, una delle cristianità di Gallia, una dei vescovi di Osroene, una del vescovo di Corinto (Hist. eccl., V,23, 3-4). Questo elenco è  prezioso perché ci dimostra che le chiese orientali condividevano su questo punto la posizione occidentale. In  particolare Alessandria (Hist. eccl., V,25). Tutte queste chiese erano concordi nell’affermare che la Pasqua doveva  essere celebrata la domenica.


Ma i vescovi di Asia mantennero la loro posizione.


Policrate di Efeso scrisse a Vittore, ricordandogli che l’uso  quartodecimano era stato quello degli Apostoli Filippo e Giovanni, di Policarpo e di Melitone. Melitone aveva scritto un  trattato sulla Pasqua. Di lui ci è pervenuta inoltre l’Omelia sulla Pasqua, che rispecchia l’uso quartodecimano. Vittore, a quanto afferma Eusebio, scrisse ai vescovi per dichiarare scomunicate le chiese di Asia. Ma questa decisione sollevò tra i vescovi uno scandalo. Intervenne Ireneo e, pur affermando di essere per la celebrazione pasquale la domenica, invitò Vittore a mantenere la linea di condotta dei suoi predecessori, accettando la dualità di costume.


La questione fu definitivamente affrontata e risolta al concilio di Nicea nel 325. A riguardo i padri niceni così si  esprimono: «Noi vi diamo il lieto annuncio dell’unità che è stata ristabilita intorno alla festa della Pasqua. Tutti i fratelli  dell’Oriente, che prima celebravano la pasqua con gli ebrei, d’ora in poi la celebreranno con i romani, con noi e con tutti gli altri che l’hanno sempre celebrata con noi» (COD, p. 19).


Calcolo della data pasquale


Pasqua ebraica


Equinozio di primavera  (21 di aprile)
Prima luna piena
XIV giorno dopo la luna piena
Pasqua ebraica


Pasqua  romana ( concilio di Nicea)


Equinozio di primavera  (21 di aprile)
Prima luna piena
Domenica successiva alla prima luna piena
Pasqua romana


*   *   *


Da Decio a Diocleziano (249-305): conquirendi sunt


I primi provvedimenti di Decio poterono apparire come una delle reazioni al regime del  predecessore, abituali nel passaggio del potere. Già nel dicembre 249 alcuni cristiani furono  arrestati e nel gennaio del 250 il capo della chiesa romana, il vescovo Fabiano, fu giustiziato. Ma  nello stesso anno 250 un editto generale fece presto capire che Decio perseguiva intenzioni che  andavano assai più lontano di quanto i suoi predecessori avessero fino allora intrapreso nella  questione dei cristiani. Egli, causa il pungolo funesto di un’epidemia, obbligava, mediante editto,  tutti gli abitanti dell’impero di prender parte ad una supplicatio, un sacrificio generale agli dèi. Ciò  assumeva l’aspetto di un appello alla popolazione dell’Impero perché, con una impressionante  dimostrazione unanime, implorasse la protezione degli dèi per la prosperità dell’impero.


Di fatto,  secondo il principio della tradizione romana, la venerazione data agli dèi era la garanzia del  benessere pubblico.


Furono istituite commissioni che dovevano sorvegliare l’attuazione del  sacrificio e redigere per ognuno un certificato (libellus). Alla scadenza di un certo termine, i libelli  dovevano esser presentati alle autorità; chi aveva rifiutato di sacrificare agli dèi veniva gettato in  prigione dove spesso si tentava ancora di fiaccare la resistenza con la tortura. Quantunque l’editto  non nominasse in alcun modo i cristiani, i loro rappresentanti qualificati e i loro scrittori l’hanno a  ragione sentito come il più grave attacco che la chiesa avesse subito fino allora. Coloro che  abiurarono furono veramente tanti.


Nell’Africa settentrionale molti cristiani credettero di poter scansare la decisione se, senza  compiere realmente il sacrificio, fossero riusciti a procurarsi da un membro della commissione di controllo, con la corruzione o con altri mezzi del genere, un certificato di compiuto sacrificio.
Furono questi i cosiddetti libellatici, la cui colpa non era considerata così grave come quella dei  thurificati, che arrivavano a bruciare qualche grano d’incenso o dei sacrificati, che offrivano  pienamente il sacrificio dinanzi ai simulacri degli dèi cibandosi degli idolotiti in segno di piena  comunione con le divinità(1). (1:  Cfr. CIPRIANO DI CARTAGINE, De lapsis e Epistola 55,2.)


  
 Alcuni esempi di libelli (2)
(2:  Desunti da una quarantina di papiri egiziani sopravissuti alla consunzione del tempo.)


 1. Alla commissione del villaggio Alexandrou Nesos eletta per sorvegliare i sacrifici.
Istanza di Aurelio Diogene figlio di Satabo, originario del villaggio Alexandrou Nesos, di circa settantadue anni, con  una cicatrice sul sopracciglio destro. Non solamente io sono sempre stato devoto al servizio degli dèi, ma anche ora in vostra presenza, secondo l’editto,  io ho incensato l’altare, ho fatto la libazione e ho mangiato della carne sacra; perciò vi prego di darmi la vostra  firma. State sani! Io Aurelio Diogene ho fatto l’istanza. Io Aurelio Siro ho registrato Diogene come sacrificante con noi. L’anno primo dell’imperatore Cesare Caio Quinto Traiano Decio, pio, felice, Augusto, il 2 del mese di epifi (26 giugno 250).


2. Alla commissione cittadina preposta alla sorveglianza delle offerte dei sacrifici.
Istanza di Aurelio..., figlio di Teodoro e di Pantominide, della stessa città.  Io ho sempre offerto agli dèi sacrifici e libazioni e anche ora davanti a voi, secondo gli ordini, io ho fatto la  libazione, ho incensato l’altare, ho mangiato della carne sacra con mio figlio Aurelio Dioscoro e mia figlia Aurelia Laide. Vi prego di darmi la vostra firma. L’anno primo dell’imperatore Cesare, ecc. (14 giugno 250).


3. Ai prefetti del culto del villaggio di Filadelfia da parte di Aurelio di Siro e (Aurelio) di Pasbio suo fratello e di Demetria e di Serapide, donne nostre vicine di casa. Sempre perseverammo nel sacrificare agli dèi, ed anche ora in vostra presenza, secondo gli ordini impartiti, abbiamo  fatto libazione e gustato le carni sacrificali. Vi preghiamo di apporre la vostra firma a nostra quietanza. Siate felici. Noi Aurelii, Siro e Pasbio presentammo  Io, Isidoro, scrissi in loro vece, perchè sono analfabeti...
 
Per un pagano convinto non c’erano difficoltà o dubbi di coscienza nell'ubbidire a quell'ordine  imperiale; lo stesso si dica per i seguaci di altri culti monoteistici o misterici dato che non era  richiesta l’abiura di essi e neppure una sincera forma di adorazione dei culti ufficiali dello Stato. Ma  la questione si poneva con delicatezza per un cristiano, perchè egli si trovava messo al bivio tra due  doveri ed era ben conscio delle dolorose conseguenze che sarebbero derivate dalla scelta, dei danni  che sarebbero stati arrecati od alla sua anima (dannazione eterna) od al suo corpo (tortura e morte),  in un caso o nell’altro.
Era quasi prevedibile a priori qualche defezione e, tenendo conto del numero  complessivo dei fedeli, non si poteva evitare un ridotto numero di apostati; nessuno però avrebbe  immaginato che le “cadute” fossero così clamorose, abbondanti ed affrettate (cioè quasi ricercate  dagli interessati prima ancora del momento in cui venivano obbligati a presentarsi ai magistrati).


In quel contesto sorse la famosa questione dei “lapsi”: si deve riammettere alla comunione con la Chiesa quei cristiani che hanno ceduto di fronte alla persecuzione cadendo nell’abiura? L’atteggiamento di Cipriano è ispirato a grande prudenza. Egli prende contatto con gli altri vescovi africani e con Roma, in quel momento senza il suo vescovo e guidata dal presbiterio. Inoltre egli  indice un sinodo della sua Chiesa (Sinodo di Cartagine del 251) le cui decisioni distinguono tra “lapsi sacrificatori” e “lapsi libellatici”.
I primi sono riammessi alla comunione con la Chiesa in  punto di morte e solo dopo aver fatto penitenza. Ai secondi era imposto un congruo periodo di  penitenza per essere riconciliati. Queste decisioni vengono comunicate a Roma la quale concorda.
Ma, essendo la Chiesa romana governata interinalmente dal suo clero, quest’ultimo aspetta un  pronunciamento definitivo da parte del suo nuovo pastore, una volta eletto. Il nuovo vescovo di  Roma, Cornelio, concorderà con le decisioni del sinodo cartaginese.


La rapida estinzione della persecuzione di Decio è, in un certo senso, sorprendente. Sarebbe stato  logico aspettarsi che il considerevole successo iniziale, ottenuto con il colpo a sorpresa sarebbe  stato utilizzato e consolidato con l’adozione di ulteriori e adeguati provvedimenti. Si ha  l’impressione che l’apparato burocratico non riuscisse a fronteggiare un’iniziativa su così vasta  scala; la partenza dell’imperatore, causata da una nuova irruzione dei goti nelle province danubiane, la portò ad una completa stasi, e la sua morte sul campo di battaglia impedì che fosse presto ripresa.


Dal punto di vista dell’autorità statale romana, quest’attacco premeditato e sistematico alla chiesa  cattolica non sortì un apprezzabile e duraturo successo; la grande massa del lapsi fece ben presto pressione per essere riammessa nella chiesa, mentre parecchi libellatici già poco dopo la loro negazione, espiavano, con una nuova confessione della loro fede, il fallo commesso.


I sette anni successivi (250-257) furono anni di tranquillità per la chiesa, turbati soltanto a Roma da una breve ondata di persecuzione sotto l’imperatore Trebonio Gallo (251-253).


I primi anni di regno del suo successore Valeriano (253-260) apportarono da principio alla Chiesa una situazione  che Dionigi d’Alessandria esalta con parole entusiastiche(3). (3: EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, VII,10,3.)
Ma nel quarto anno di regno dell’imperatore si produsse un sorprendente, improvviso mutamento che portò ad una breve, ma estremamente dura e cruenta persecuzione, la quale poteva divenire, come quella di Decio, una seria minaccia per la Chiesa, essendo anch’essa basata su di un piano ben calcolato. 


Con due editti (uno del 257 e l’altro del 258), Valeriano intende colpire il clero e i notabili della Chiesa (laici facoltosi). Lo scopo era chiaro; il clero e le classi elevate, che godevano di mezzi e di considerazione, dovevano essere eliminati e la massa dei cristiani rimasta priva di capi e d’influsso, sarebbe stata condannata a non contar più nulla.
Le vittime furono molte, soprattutto nel clero: Cipriano, Sisto II con i suoi diaconi, Lorenzo, Giacomo, Mariano e l’eretico Novaziano.  La fine della persecuzione sopraggiunse con la tragica fine dell’imperatore, che nel 259 cadde prigioniero dei persiani e come tale morì poco dopo.  L’impressione complessiva che il contegno dei cristiani lasciò questa volta è notevolmente migliore che non nella precedente persecuzione. 


Gallieno (260-268), figlio e successore di Valeriano, avrebbe potuto difficilmente proseguire la  lotta contro i cristiani anche per i soli motivi di politica interna ed estera; egli però non soltanto fece  cessare la persecuzione, ma emanò un proprio editto in loro favore. In questo, l’imperatore dice di  aver fatto già da qualche tempo restituire ai cristiani i loro luoghi di culto e dato ordine che nessuno li molesti. Questo riconoscimento di un possedimento ecclesiastico da parte della massima autorità  dello stato costituisce un notevole atto di tolleranza, che ebbe favorevoli ripercussioni  sull’avvenire della chiesa. Anche se con questo il cristianesimo non era ancora riconosciuto come religio licita, tuttavia l’editto di Gallieno diede inizio ad un periodo di pace di oltre quarant’anni  che doveva favorirne lo sviluppo interno ed esterno. Non a torto, Eusebio ha esaltato questo periodo  come un tempo di gloria e di libertà per il cristianesimo, in quanto poté senza ostacoli edificare  chiese, evangelizzare greci e barbari. Parecchi cristiani accedettero ad alte cariche statali e poterono  dappertutto godere di forti simpatie.
  
Dalla Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesare (lib. VII,11)


Ma poco tempo dopo Valeriano fu imprigionato dai barbari; suo figlio regnando da solo si dimostrò più  saggio, abolì con editti la persecuzione contro di noi ed ordinò con decreti ai vescovi di esplicare liberamente  le loro funzioni. Ecco il testo:


 «L’imperatore Cesare Publio Licinio Gallieno pio, felice, Augusto, a Dionisio e Pinna e Demetrio e ai rimanenti vescovi. Ho disposto che la benefica mia generosità abbia la sua applicazione in tutte le parli del mondo. Saranno quindi sgombrati i luoghi già dedicati al culto religioso, e voi potrete addurre in favor vostro il testo del mio rescritto, si che nessuno vi dia molestia. Di essi luoghi, quanto può essere da voi rioccupato secondo la possibilità, fu già da me concesso da molto tempo. Pertanto Aurelio Quirino, sopraintendente dei massimi affari, conserverà copia dell’ordinanza da me emanata».


 La polemica anticristiana però non si placava. Porfirio, con l’opera in quindici libri Contro i  cristiani (268), sembra abbia contribuito a preparare un ambiente favorevole presso i pagani perché  poi si sfociasse nella persecuzione che sotto Diocleziano (285-305; †313c.) avrebbe avuto luogo, soprattutto su costante pressione psicologica esercitata su di lui dagli aruspici, dal suo consigliere  Ierocle (prefetto d’Egitto) e di Galerio.


Con la crescente animosità verso il cristianesimo, non è ancora spiegato il passaggio relativamente improvviso di Diocleziano da una tolleranza applicata con larghezza di vedute (non si dimentichi che sua moglie e sua figlia erano filocristiane) alla persecuzione più dura. Il motivo principale del suo operato si dovrà ricercarlo nella sua convinzione che il cristianesimo fosse d’ostacolo all’opera di ricostruzione che egli con tanto successo aveva intrapreso nei più diversi  settori di vita dell’Impero romano. Dopo avere assicurato le frontiere e consolidato il governo dello  stato, dopo aver rimosso difficoltà amministrative all’interno, ora egli rivolgeva la sua attenzione  allo scottante problema religioso, che voleva indubbiamente risolvere nel senso di una restaurazione  dell’antica religione romana.
Si comprende che Diocleziano abbia cominciato la lotta al cristianesimo con una epurazione  nell’esercito, dato che legge suprema nello stato romano era allora la fidatezza dell’esercito. I  cristiani non erano contrari al servizio militare in sé, ma si rifiutavano di partecipare ad un atto di  culto pagano, quale era per loro il culto dell’imperatore nelle sue varie forme, dal momento che i sovrani stessi si erano proclamati figli di Giove e di Ercole (ciò era connesso con la tetrarchia  dioclezianea). L’allontanamento di tali elementi non fidati dall’esercito era lo scopo che si proponeva l’editto col quale già verso il 300 Diocleziano ordinava a tutti i soldati di sacrificare agli dèi o di abbandonare l’esercito. 


A tale provvedimento circoscritto solamente all’esercito, Diocleziano giunse a far proclamare nel febbraio del 303 il primo editto che in nome dei quattro imperatori (cioè della tetrarchia iniziata appunto da Diocleziano) ordinava la distruzione di tutte le chiese cristiane e la consegna dei libri  santi cristiani che dovevano esser dati alle fiamme, vietando in pari tempo tutte le riunioni cultuali  cristiane. Gravemente risentito doveva essere lo svilimento dei cristiani in tutti i campi, che l’editto  abbondantemente esprimeva: quelli che lavoravano nell’amministrazione imperiale erano ridotti  allo stato di schiavi, i più ragguardevoli tra loro perdevano la propria posizione di privilegio e i  propri uffici, tutti i cristiani dell’Impero erano dichiarati incapaci di atti legalmente validi.
A Nicomedia si cominciò col demolire la chiesa prospiciente il palazzo imperiale. In Occidente  l’imperatore Massimiano mostrò uno speciale compiacimento nel farlo eseguire, mentre il suo Cesare, Costanzo, in Gallia e in Britannia gli diede un’applicazione molto blanda, poiché fece soltanto demolire gli edifici di culto, senza procedere ad incarcerazioni ed a condanne capitali. Diocleziano fu ben presto sospinto ad andar oltre sulla via intrapresa.
Con un secondo editto si  privò le comunità cristiane dei propri pastori, colpendo così l’organizzazione ecclesiastica nei suoi gangli vitali.
Un terzo editto fornì le istruzioni dettagliate per procedere nei confronti del clero: chi  compiva il sacrificio agli dèi veniva rimesso in libertà; chi vi si rifiutava era sottoposto a tortura e mandato poi a morte.
Un quarto ed ultimo editto all’inizio dell’anno 304 completava i provvedimenti legislativi contro i cristiani, prescrivendo a tutti, senza eccezione, il sacrificio agli dèi.


L’intensità della persecuzione non mutò quando il primo maggio 305 in seguito alla duplice abdicazione degli Augusti, Diocleziano e Massimiano, ebbe inizio la seconda tetrarchia, che fece avanzare al rango di Augusto Costanzo Cloro per la parte occidentale dell’Impero e Galerio per  quella orientale ed elevò alla dignità di Cesare, Severo e Massimino Daia, mentre, contro l’aspettativa dell’esercito, il giovane Costantino, figlio di Costanzo, venne lasciato da parte.
Comunque nella parte occidentale dell’impero la persecuzione, causa la grande tolleranza di Costanzo Cloro, si spense subito. Così pure Costantino (che nel 306 succedette a suo padre) e Massenzio (che nello stesso anno estromise Severo) erano, per differenti motivi, alieni dal perseguitare i cristiani.


La parte orientale dell’impero ebbe invece a subire tutto il rigore della persecuzione dal primo editto del 303 fino all’editto di tolleranza di Galerio nell’anno 311, con la sola eccezione della Pannonia dove dal 308 esercitò il potere quale Augusto Licinio, che per considerazioni tattiche si astenne dal dar molestia ai suoi sudditi cristiani.


Purtroppo i due principali testimoni della persecuzione di Diocleziano, Lattanzio ed Eusebio,  tacciono completamente sul corso e sulle proporzioni assunte dall’azione di Massimiano in Occidente. È perciò spesso difficile acquisire dati sicuri circa i nomi dei martiri e la loro provincia natale. La storia del culto dei martiri fornisce tuttavia, qua e là, qualche appiglio per stabilire l’esistenza di singoli martiri in questo periodo. Anche se gran numero dei presunti martiri romani, dei quali si parla in altri non molto attendibili senza precisazioni sull’epoca del loro martirio, non  possano affatto venire ascritti globalmente alla persecuzione di Diocleziano, tuttavia alcuni di loro, di cui la storia liturgica ha potuto dimostrare la storicità, possono considerarsi vittime di essa (Agnese, Sebastiano, papa Marcellino (296-304), Felice e Adaucto, Pietro e Marcellino, al quale  ultimo si riferisce l’epigrafe forse più preziosa di papa Damaso).


La vera e propria svolta si produsse con una grave malattia dell’ Augusto Galerio, che ai cristiani  parve comprensibile solo come un intervento della provvidenza divina. Si erano già cominciati a  stabilire i piani per i suoi Vicennali, quando l’imperatore si ammalò e negli alti e bassi del suo stato  di salute, che andava minacciosamente aggravandosi, fu condotto a riflettere sulla portata di tutta la  lotta contro i cristiani. Il risultato delle riflessioni dell’uomo, ormai segnato dalla morte, fu l’editto  del 311, che ordinava la cessazione delle persecuzioni su tutto il territorio dell’Impero.
Il tenore  verbale dell’editto, riportato da Lattanzio e inserito da Eusebio nella sua Storia ecclesiastica, lascia  ancora intravedere, nelle caratteristiche del suo stile, lo smarrimento che dovette provare Galerio quando giunse a capire che la politica di forza contro i cristiani, da lui fin da principio voluta e condotta con ogni energia, era stata un errore, un colpo a vuoto. L’editto portava in testa i nomi dei  quattro sovrani, ma in esso si esprime Galerio, nel cui intimo solo a fatica le nuove opinioni si andavano coordinando in un tutto.
Egli esordisce affermando che con i loro precedenti provvedimenti gli imperatori non avevano di mira che il maggior bene dello stato ed aspiravano a una restaurazione delle antiche leggi e dell’ordinamento romano cui volevano ricondurre anche i cristiani. Questi infatti avevano abbandonato la religione dei loro padri e nella loro rivoluzionaria  arroganza si erano dati delle leggi proprie. Gli editti di persecuzione non avevano tuttavia potuto piegare la maggioranza dei cristiani, molti di loro dovettero lasciarvi la vita, altri essere molestati. Il risultato è un’anarchia religiosa nella quale, né viene reso il culto dovuto agli antichi dèi, né viene onorato lo stesso Dio dei cristiani. Per ovviare a questo stato di cose, gli imperatori accordano indulgenza e permettono che «i cristiani possano di nuovo esistere e tenere le loro adunanze religiose, purché nulla facciano contro l’ordine pubblico». Era prevista un’altra lettera ai prefetti  che doveva dar loro le norme dettagliate per dar corso all’editto. Ai cristiani s’ingiungeva di pregare il loro Dio personale.


“Editto di tolleranza” dell’imperatore Galerio  (4
(4:  L’editto fu tradotto in latino da Lattanzio, De mortibus persecutorum, c. XXXIV. Una versione greca del medesimo ci è stata data Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, VIII,17.)


 «Con gli altri editti che sempre abbiamo emanato per il bene e la prosperità dello Stato, noi avevamo cercato prima d’ora di riformare ogni cosa secondo le antiche leggi e i pubblici ordinamenti di Roma, e di far sì che anche i Cristiani, i quali avevano abbandonato la religione dei loro padri, ritornassero a migliori consigli. Infatti son giunti a tal segno di follia e di stoltezza, da non osservare più le tradizioni degli antichi, forse introdotte dai loro genitori, ma da farsi a loro piacere ed arbitrio, delle leggi, che strettamente  osservano, e da tenere le loro assemblee, in luoghi diversi. Quando noi promulgammo degli editti, per indurli a ritornare alla religione dei padri, molti vedendo il pericolo, si sottomisero, ma altri furono puniti.
E poiché moltissimi persistevano nella loro ostinazione, e noi vedevamo che costoro non prestavano il culto e l’onore dovuto agli dèi, ma veneravano il Dio dei cristiani, per impulso della nostra mitissima  clemenza, e in perpetuo ossequio alla nostra consuetudine, per la quale siam soliti di perdonare a tutti gli  uomini, abbiamo creduto di concedere subito anche a costoro il nostro perdono, permettendo che vi siano  di nuovo i cristiani (ut denuo sint christiani), che tengano le adunanze (conventicula sua componant), perché non facciano nulla che sia contrario alle nostre leggi. Con altro decreto informeremo i giudici sul  modo con cui dovranno comportarsi. I cristiani intanto, come compenso del nostro perdono, dovranno  pregare il loro Dio per il bene nostro, dello Stato e loro, perché in ogni parte lo Stato conservi la sua incolumità ed essi possano vivere tranquilli nelle loro case».


Osservazione importante: si deve far ben attenzione che si trattava pur sempre di tolleranza! In effetti ai cristiani non viene riconosciuta nessuna legge di tutela che li legittimi in quanto tali. Di  fatto, le proprietà confiscate dallo stato alla Chiesa, durante la persecuzione, non furono restituite (ed è qui la differenza con l’editto di tolleranza di Gallieno, in quanto questi riparò alle  espropriazioni fatte dalla persecuzione di Valeriano suo padre). In effetti non passeranno che alcuni mesi che il nuovo Augusto, Massimino Daia, riprenderà la persecuzione in Oriente, mitigata poi  solo per calcolo politico in seguito alle minacce rivoltegli dall’Occidente: Costantino e Licinio.


La svolta costantiniana


Con la serie di guerre che si ebbero all’indomani della morte di Galerio, tra Licinio e Costantino  rispettivamente contro Massimino Daia e Massenzio e la vittoria dei primi sui secondi, si ebbe l’instaurazione di una diarchia imperiale.
Massenzio cadde a Ponte Milvio nell’ottobre del 312; i  soldati, in quell’occasione, avevano posto sugli scudi il crismon secondo l’ordine dato loro da  Costantino come gli era stato ordinato dall’angelo apparsogli nel sonno. Si giunse così che nel febbraio del 313 i due nuovi Augusti diarchi (Licinio e Costantino) si incontrarono a Milano per suggellare e definire ulteriormente il patto della loro alleanza, già sancito nel 312.


All’interno di questa alleanza – sancita con un editto (Editto di Milano) – si stabilisce che a ciascun suddito sia riconosciuta la piena libertà di scelta religiosa; restituzione alla Chiesa di tutti quei luoghi dove i cristiani si solevano adunare (chiese, cimiteri). Di conseguenza, le comunità cristiane vengono ad essere giuridicamente riconosciute (cioè “titolate”: in possesso di un “titolo”, cioè di una proprietà giuridicamente registrata e che manifesta, pertanto, la personalità giuridica dell'ente che la possiede). In sostanza una serie di disposizioni nei riguardi della religione cristiana che in quanto tali si distanziano enormemente dalla tolleranza accordata da Galerio.


Il rapporto tra i due imperatori (Licinio e Costantino) andò guastandosi già dal 314. Negli anni  seguenti il conflitto andò sempre più intensificandosi assumendo però una connotazione religiosa:  Licinio restrinse le libertà concesse precedentemente ai cristiani, forse sospettando che questi – già favoriti da Costantino e assecondati in molte delle loro richieste che andavano ben oltre l’Editto di Milano – potessero favorire e dare appoggio al suo avversario. Nel 324, dopo una serie di vincenti battaglie, Costantino costrinse Licinio alla resa e, quindi, all’esilio.  
                                         
Dalla fine del 324 Costantino è riconosciuto quale imperatore unico. Coloro che più degli altri esultarono per l’ascesa di Costantino furono appunto i cristiani. Infatti l’Augusto confermò la loro esultanza con una serie di atti legislativi. Innanzitutto, con una serie di editti, abrogò immediatamente le leggi loro avverse e promulgate di recente da Licinio. A tutti è garantita la libertà di religione. L’opera legislativa condotta da Costantino porrà le basi per il progressivo passaggio della società pagana alla società cristiana (5). (5:  Da M. CHAPPIN, La Chiesa antica e medievale, (Sussidio ad uso degli studenti), Roma, PUG, 1997 3a ristampa, 52.)


 - 313 e altre occasioni:  il divorzio diventa più difficile da attuare.
- 3 nov. 313: la pena di morte è applicata soltanto quando il crimine è provato o confessato.
- 13 mag. 314: applicazione delle leggi secondo giustizia e verità.
- 21 mar. 315: non si devono più marchiare a fuoco la fronte dei condannati ai lavori forzati (“poiché il nostro viso è a somiglianza di Dio”).
- 13 mag. 315: aiuto ai poveri per evitare l’esposizione dei neonati e sovvenzione dalla cassa privata dell’imperatore per le chiese cattoliche.
- 13 ago. 315:   divieto di passare al giudaismo e divieto di rendere schiavo un figlio di padre libero.
- 23 mag. 318:   divieto di praticare la magia.
- 23 giu. 318:   effetto civile per le decisioni dei tribunali vescovili.
- 11 mag. 319:   divieto di uccidere i propri schiavi e restrizione della tortura.
- 31 gen. 320:   abolizione della tassa sul celibato.
- 31 dic. 320:   i prigionieri sono protetti contro il maltrattamento.
- 3 mar. 321:  la domenica viene elevata a giorno di riposo per tutti.
- 18 apr. 321:   facilitata l’emancipazione degli schiavi, tramite una procedura celebrata in chiesa.
- 3 lug. 321:   la domenica i tribunali sono chiusi e la Chiesa può ricevere donazioni e
lasciti.
- 6 lug. 322:   vietata la vendita dei figli.
- 25 dic. 323:   chi obbliga un cattolico a compiere un sacrificio in un tempio pagano è punito.
- 324:   restituzione ai cristiani dei beni privati confiscati durante la persecuzione di
Galerio e finanziamenti pubblici per la costruzione di chiese.
- 24 apr. 325:   protezione dei poveri.
- 29 apr. 325:   una famiglia di schiavi non può essere divisa (p. es. nel caso di vendita dei terreni).
- 1 ott. 325:   divieto dei giochi gladiatori.
- 326:   la Chiesa è riconosciuta erede dei beni degli eretici.
- 14 giu. 326:   un uomo sposato non può mantenere una concubina in casa sua.
- 328:   fa costruire la Chiesa della Risurrezione a Gerusalemme.
- 3 mag. 329:   lo stato aiuta i bambini di genitori poveri.
- 29 nov. e 1 dic. 330:   il clero cristiano (ed anche quello giudaico) sono esentati dai doveri civili pubblici (p. es. l’obbligo della leva militare).


Inoltre bisogna segnalare una progressiva legislazione privilegiante i vescovi: l’uso dei mezzi di trasporto dello stato per recarsi ai sinodi, i posti d’onore nelle assemblee pubbliche ecc.
Contemporaneamente al varo di queste leggi compare anche una legislazione antipagana: Costantino usa dei tesori dei templi per la costruzione di Costantinopoli e delle sue chiese. Ad un inventario dei tesori templari porta anche ad uno spoglio degli stessi, ciò dovuto anche all’enorme  bisogno di oro per mantenere sia l’esercito che il finanziamento della nuova capitale dell’impero.
D’altronde la cristianizzazione della società imperiale era cosa prevedibile dal momento in cui l’Imperatore avesse abbracciato questa religione. In effetti sarebbe anacronistico pensare che nella  mentalità del IV secolo si potesse mantenere una condotta neutrale da parte dello stato in materia di religione. È cosa consona con il sentire del tempo che una volta che l’Imperatore si fosse convertito al cristianesimo – e su ciò nessuno poteva dubitare, anche se Costantino si fece battezzare solo sul letto di morte – la durata del paganesimo sarebbe stata segnata.


L’ufficializzazione del cristianesimo  a livello imperiale preparava la strada all’intolleranza dei cristiani verso il paganesimo e la sua  definitiva uscita di scena. Forse è anche sotto questo punto di vista che si devono interpretare le  persecuzioni attuate dalla metà del III secolo in poi: non poteva sussistere, all’interno di uno stato  pagano, la possibilità di esistere di un’altra religione totalmente inconciliabile a quella statale; nel momento in cui ciò fosse stato reso possibile ne sarebbe scaturito un capovolgimento sociale di fatto sul piano universale (politica, cultura, morale, ecc.)(6). (6:  Cfr. H. JEDIN, Storia della Chiesa, I: K. BAUS, Le Origini. Inizi e affermazioni dellacomunità cristiana. La chiesa dalle origini alla conversione di Milano I Padri e il monachesimo eremitico (I-IV secolo), Milano, Jaca Book, 19922, 543.)


La “teologia dell’Impero”.


Dalla presa di posizione dell’imperatore Costantino per il  cristianesimo, nasce in ambito ecclesiale la prima “teologia politica” dell’Impero. Uno tra i teologi che svolsero un ruolo di primo piano nel nuovo processo di interpretazione teologica della realtà che si era originata con l’adesione dell’Imperatore al cristianesimo fu Eusebio di Cesarea.
Egli usando il passo paolino 1Cor 15,28 afferma che l’Imperatore, per il suo governo, deve essere un imitatore perfetto di Cristo, per cercare di correggere il mondo dall’errore primitivo in maniera da introdurre gli uomini nella Chiesa, prodigandosi così per la loro salvezza. In questo senso l’Imperatore prepara l’Impero per consegnarlo a Cristo, il quale lo consegnerà a sua volta al Padre. Per Eusebio l’Imperatore, pertanto, fa parte dell’economia di salvezza ed egli stesso è strumento di salvezza (7). (7: CHAPPIN, La Chiesa antica, 53.)


 Excursus: la conversione di Costantino al cristianesimo (8)
(8: Importante: A. VECCHIO, Alla ricerca delle cause della conversione di Costantino: realtà e convinzioni letterarie, in Salesianum 60 (1998) 97-123.)


Le fonti principali che ci dispongono a comprendere il lungo e tormentato passaggio sono date  dagli scritti di Lattanzio: Morte dei persecutori, e da Eusebio di Cesarea: Vita di Costantino.
Sebbene entrambi questi autori siano sospettati di connotare Costantino in una luce un po’ troppo splendente, esse sono le uniche che permettano di risalire alle tappe che segnano la conversione  cristiana di Costantino. Le informazioni desumibili da queste due fonti, trovano la loro  fondamentale conferma dagli atti legislativi dell’Imperatore e dai reperti numismatici avvenuti in un recente passato su cui i ricercatori hanno basato le loro indagini.


Della sua giovinezza poco si sa. Sappiamo che nacque a Naisso (l’attuale Niš) in Illiria nel 285 circa da Costanzo Cloro (soprannominato appunto “Cloro” per il pallore del volto; (χλωρσς) = verde)  ed Elena (originaria di Drepane, poi Helenopolis, sul Mar di Marmara vicino a Nicomedia), entrambi pagani.
Sembra sia stato molto attaccato alla madre, che quale ex locandiera non poteva                                                
sancire un contratto matrimoniale legittimo con Costanzo, poiché agli alti ufficiali era proibito di sposare donne delle province in cui prestavano servizio.
Di fatto Costanzo dovette separarsi da lei, per convolare a nozze con la figliastra di Massimiano, Teodora.
Il piccolo Costantino rimase presso la madre, in Bitinia. Stando a quanto riferito da Eusebio, suo padre Costanzo era un monoteista. Ne fa conferma il fatto che una sua figlia portasse il nome di Anastasia, nome questo che era usato solo  dai cristiani e dai giudei. Un’altra figlia, Costanza, si dimostrerà cristiana convinta. Quindi sembra che il gruppo famigliare di Costantino fosse di orientamento cristiano. Nel 305, dopo essere fuggito  da Nicomedia dove era trattenuto a corte presso Galerio come ostaggio, Costantino raggiunse il  padre in Britania presso il quale militò.
Il 25 giugno 306 Costanzo muore a Eburacum (York). Le truppe acclamano Costantino Augusto.
Galerio, dissimulando la propria contrarietà, gli concede il titolo di Cesare poiché quello di Augusto d’Occidente spettava per diritto a Flavio Severo. In tal  frangente Costantino continua la politica di suo padre: tolleranza nei confronti dei cristiani (mentre nelle altre parti dell’impero essi erano perseguitati) ed una certa consapevole autonomia nei  confronti dei reggitori dell’Oriente.


È proprio in questo periodo che Costantino si dimostra sensibile alle ispirazioni religiose del suo spirito ancora pagano. Nel 310, dopo aver ottenuto a Marsiglia la vittoria su Massimiano, suo  suocero – costretto al suicidio da Costantino –, durante una visita al santuario del Sole in Gallia egli  avrebbe avuto una visione in cui gli apparve Apollo e la Vittoria che gli offriva una corona di alloro  ornata da 3 X (XXX).  «È presumibile che quel ripetuto segno X, abbia il doppio significato di simbolo del Sole, e di numero: il segno X per simboleggiare il Sole, era consueto, e poteva essere usato come propiziatore anche su elmi e scudi; mentre l’augurio di 30 anni di regno non andò lontano dalla futura realtà. Quel che conta è, che già in ambiente pagano, per testimonianza di un autore del tutto contemporaneo (autore del Panegirico 7, pronunciato a Treviri in occasione del genetliaco di Costantino),  risulta che Costantino, fin dal 310 denunciava di avere visioni, in cui gli comparivano esseri divini, solari-apollinei» (9). (9:  L. PARETI, Storia di Roma e del mondo romano 6: Da Decio a Costantino, Torino 1961, 209.)


Quindi, nel 310 abbiamo Costantino che passa dal culto di Ercole, a cui era connessa la teologia  di stato dioclezianea, a quello del Sol Invictus. Non solo. Ma connesso alla maturazione della sua  pietà religiosa è anche la vocazione che egli ha di se stesso ad essere stato eletto dalla divinità a divenire capo di tutto l’impero. Tale finalità di Costantino si manifesta nel momento in cui egli collega la sua discendenza all’imperatore Marco Claudio Tacito Gotico (275-276) affermando così  il suo diritto ereditario ad assurgere al dominio universale.
La guerra sorta contro Massenzio, a  causa della volontà vendicativa di quest’ultimo per la morte del padre, dispose Costantino ad invadere l’Italia con un esercito inferiore a quello dell’usurpatore (Massenzio aveva ucciso Flavio  Severo e con l’aiuto del padre, Massimiano, ne aveva usurpato il titolo di Augusto d’Occidente).
Nel corso della guerra condotta contro Massenzio, avvenne il definitivo passaggio di Costantino al  Dio dei cristiani. In questo senso le fonti, sia pagane sia cristiane, sono concordi. In questo senso la  storia di Lattanzio rappresenta una fonte d’importanza primaria. Egli riferisce che l’Imperatore  durante il sonno avrebbe ricevuto un’ammonizione di apporre negli scudi dei soldati le iniziali del  nome di Cristo.


Anche il panegirista pagano di Treviri nel 313 (Panegirico 10) esaltò la vittoria di Costantino su  Massenzio parlando del dio che aveva concesso la vittoria al suo imperatore. Lo connotava come un  dio vicino e presente che conforta il suo eletto nel segreto assicurandogli la vittoria. Ciò ci dà modo  di comprendere come anche Costantino confidasse ai suoi diretti collaboratori quale fosse stata la  sua esperienza.
Di fatto Costantino dopo la battaglia di Ponte Milvio non salì al Campidoglio per rendere omaggio a Giove. Pubblicizzò quindi il fatto che tale vittoria egli non la attribuisse a quella divinità ma ad un altro dio.
Ciò sta a significare che con la vittoria su Massenzio si produsse in  Costantino un rilevante ulteriore allontanamento dalla religione pagana. È da questo periodo che il  crismon incomincia a comparire (sulle monete, sugli elmi, sui fermagli, ecc) accanto alle immagini delle antiche divinità – specialmente quella del Sol Invictus –, su cui alla fine avrà il sopravvento.
A conferma del passaggio dalla religione pagana al cristianesimo da parte di Costantino, sono  alcuni suoi provvedimenti giuridici emanati successivamente alla vittoria su Massenzio:
-petizione  rivolta a Massimino Daia perché cessasse la persecuzione contro i cristiani in Oriente;
-restituzione ai cristiani africani delle proprietà confiscate;
-somme di denaro elargite alla Chiesa di Cartagine;
-esenzione del clero cartaginese dai pubblici uffici perché potesse dedicarsi di più alla preghiera.


Tutto sembra far pensare che in Costantino fosse importante assicurare al cristianesimo una sua prerogativa, cosa che in precedenza non aveva mai avuto. Tutto ciò fa comunque intendere che è  proprio negli anni 312-313 il tempo in cui il figlio di s. Elena compì una sua personale conversione  al cristianesimo, anche se ancora nel suo animo pagano-romano il messaggio essenziale di questa  nuova religione non trovasse una sua consona risonanza.
In questo senso è alquanto mai  interessante ciò che A. Alföldi dice al riguardo. Questo A. Alföldi, immagina la figura di Costantino non  come quella di un fine politico, ma come di un soldato privo di grande cultura e impulsivo di  carattere che si convertì al Dio dei cristiani perché pensava di trovarvi un’efficace protezione. Alla fine l’Imperatore si sarebbe persuaso che non ci sarebbe stato altro protettore diverso dal Dio  cristiano. Ciò spiega come egli abbia potuto organizzare una propaganda destinata a far palesare la  sua fede e a celebrare l’episodio che manifestava la sua elezione divina, il patto da lui fatto con Dio,  premessa della vittoria finale (10). (10: Cfr. C. PIETRI, La conversione: propaganda e realtà della legge e dell’evergetismo, in Storia del cristianesimo. Religione Politica Cultura, vol. II: La nascita di una cristianità (250-430), Roma 2000, 188-9.)


(Fine sesta parte)

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