martedì 16 novembre 2010

Il quartiere di San Zeno e la zona accidentale di Verona dalla preistoria al medioevo

Chiostro di San Zeno

Il quartiere  di San Zeno e la zona accidentale di Verona dalla preistoria al medioevo

Verona. (chiostro di San Zeno), 13 ottobre - 4 dicembre 20109

Mostra archeologico-didattica promossa dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto, Nucleo Operativo di Verona
con il patrocinio della Chiesa Abaziale di San Zeno

Coordinamento  generale
Antonella Arzone,  Federico  Biondani,  Germano Piccoli

Testi dei pannelli
Antonella Arzone (a.a.), Federico Biondani (f.b.), Margherita Bolla (m.b.), Giuliana Cavalieri
Manasse (g.c.m.), Stefano Lodi (s.l.), Paola Salzani (p.s.), Luca Sandini (l.c.), Cecilia Zanetti (c.z.)

Impaginazione e realizzazione dei pannelli
Tipolitografia Gi.Bi di Isola della Scala

Fotografie
Francesca Meloni, Germano Piccoli, Luca Sandini

Documentazione grafica e fotografica d’archlvio
ASBAV, Archivio della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto, Nucleo Operativo di Verona

Documentazione grafica e fotografica tratta da pubblicazioni
Alle Wege führen nach Rom ... , Intemationales Römerstrassenkolloquium (Bonn 25-27.6.2003),
Bonn 2004.

La chiesa di San Procolo in Verona. Un recupero e una restituzione. A cura di P. Brugnoli, Vago di Lavagno (Verona) 1988. .

 DE ZANCHE A., SORBINI L., SPAGNA V. 1977, Geologia del territorio del comune di Verona, Verona (Memorie del Museo civico di storia naturale di Verona (IIa sene). Sezione Scienze della terra n. 1 1977).

MUSETTI S. (a cura di) 2008, San Zeno: da Porta Catena a Porta Palio, Verona.

PANVlNlO O. 1648 Antiquitatum Veronensium Libri VIII, Verona.

SARAINA T. 1540, De origine et amplitudine civitatis Veronae, Verona.

CD Rom illustrativo della mostra
Federico Biondani, Germano Piccoli

Disegno ricostruttivo della domus suburbana
Giovanna Ziliani

Si ringrazia Mons Giovanni Ballarmi.
 Avario titolo si ringraziano inoltre:
Brunella Bruno, Raffaella Giacometti, Maria Teresa Guaitoli, Francesca Meloni. Flavio Pachera, Luciano   Salzani

INTRODUZIONE

Con questa esposizione si vogliono ripercorrere le vicende della più antica storia della zona occidentale di Verona, compresa all’incirca nei confini dell’attuale terza circoscrizione, alla luce soprattutto delle indagini archeologiche (ricerche di superficie e scavi) che si sono compiute negli ultimi decenni, le quali consentono di avere un quadro più preciso degli aspetti topografici e delle vicende demografiche dell'area fino alla drastica "spianata" del Cinquecento.

Questo territorio risulta abitato per la prima volta fra la seconda metà del IV e il III millennio a.C. durante l'età del Rame, come testimoniano i ritrovamenti di Ponte Catena, la sepoltura di via Tommaso da Vico, la probabile sepoltura di via Meneghetti e gli strumenti in selce trovati alla Spianà.

Dopo una lungo periodo di completo spopolamento, la zona torna ad essere interessata da attività antropiche durante la fase della romanizzazione della Gallia transpadana nel II-I secolo a.c., quando vengono realizzate le due importanti arterie che la attraversano: dapprima la via Postumia e poi la via "Gallica".
Con la costruzione della nuova Verona entro l'ansa dell'Adige nella seconda metà del I sec. a.C.,  quest'area diventa suburbio della città. Lungo le strade si dispongono innumerevoli sepolture ma anche alcuni impianti produttivi.  Nella zona della Spianà sorgono poi degli edifici rustici la cui frequentazione perdura fino al V secolo d.C. Con la crisi economica e demografica che caratterizza il periodo fra tardoantico ed alto medioevo e che coinvolge anche Verona, il nostro territorio torna a spopolarsi, mentre le aree funerarie vengono abbandonale e i monumenti in pietra sono in gran parte abbattuti e reimpiegati per le nuove costruzioni cittadine.

Solo a partire dall'VIII secolo le fonti scritte documentano la realizzazione di nuovi edifici religiosi, militari e civili, in particolare la costruzione della chiesa di San Massimo e lo sviluppo di un borgo intorno ad essa in prossimità dell'attuale incrocio fra corso Milano e viale Cristoforo Colombo. Agli inizi del Cinquecento per esigenze militari tutti gli edifici che si trovavano nell'area della Spianà furono rasi al suolo, compreso il piccolo borgo di San Massimo che fu ricostruito nel luogo dove sorge il centro attuale. (f.b.)

ASPETTI GEOMORFOLOGICI

L'attuale conformazione del territorio occidentale di Verona è il risultato di fenomeni alluvionali ed erosivi, che hanno avuto luogo durante il pleistocene (prima fase dell'era quaternaria o neozoica). In quest'epoca periodi freddi con conseguente sviluppo dei ghiacciai (gli studiosi per l'area alpina contano almeno cinque glaciazioni denominate Donau, Günz, Mindel, Riss e Würm) si alternano a periodi più caldi (fasi interglaciali).

- In corrispondenza dei periodi di disgelo di queste glaciazioni, in particolare della penultima (quella di Riss, datata indicativamente fra 250.000 e 120.000 anni fa) e dell'ultima (quella di Würm datata indicativamente fra gli 80.000 e i 10.000 anni fa) l'Adige trasportò verso valle grandi quantità di detriti che si accumularono nel punto in cui il fiume sbocca in pianura rallentando il suo corso; questi detriti diedero luogo ad un ampio terrazzo di forma all'incirca conica (denominato “conoide dell’Adige”) nel quale si riconoscono le tracce di una serie di alvei a “canali intrecciati”.

- A questa fase di accumulo seguì (in un periodo successivo ai 25.000 anni fa, ma prima dell'età del rame, come testimoniano i ritrovamenti del nostro territorio) una fase di erosione, dovuta alle divagazioni del corso dell' Adige, la quale portò allo scavo (probabilmente per una profondità di ca. 25 m) di un ampio solco (denominato “piano di divagazione dell’Adige”) che incise il “conoide” che si era formato in precedenza, fino alla scarpata tuttora ben visibile, che con un andamento all'incirca nord-sud va da Chievo fino a Santa Lucia, per poi piegare verso est in direzione di Porta Nuova.

- All’interno di questo solco si depositarono in epoca successiva dei sedimenti di origine fluviale (per le diverse migrazioni dell’alveo dell’ Adige); altri depositi di sabbia e limi si formarono anche per trasporto eolico (loess) nella zona di San Zeno e di Borgo Milano.

- In epoca storica, infine, a modificare l’ambiente è stato soprattutto l’uomo, specialmente con opere di livellamento e di canalizzazione.

Nell'area che ci interessa si possono pertanto individuare due zone, ben distinte dalla scarpata sopra ricordata:
- ad occidente il terrazzo quasi pianeggiante, con debole pendenza da nord-ovest verso sud-est formato dai ciottoli, dalla ghiaia e dalla sabbia portati dalle alluvioni dell’Adige, sulle quali si è formato poi uno strato superficiale argilloso-sabbioso di colore rossastro;
- ad oriente una fascia più depressa con terreni alluvionali anche di epoca recente, in corrispondenza delle divagazioni dell’ Adige (come quella individuata in prossimità della scarpata che si trova nella zona della Spianà); anche questi terreni sono formati principalmente da sabbie, ghiaie e ciottoli, ma di granulometria più fine rispetto a quelli della fascia più occidentale.

In rapporto alla nostra documentazione archeologica, si può dire che quando l'uomo per la prima volta si stabilisce nel territorio esaminato (metà IV-III millennio a.C.), la situazione morfologica non doveva essere molto diversa da quella attuale; notiamo inoltre che sia le presenza preistoriche sia quelle di età romana si collocano nella fascia più depressa all’interno del solco scavato dalle divagazioni atesine: tenendo conto che nuove scoperte potrebbero cambiare il quadro attuale e che vari sono i motivi che possono avere determinato queste scelte insediative - per l’epoca romana, per esempio, la vicinanza della città e delle vie di comunicazione -, non è da escludere che la presenza di terreni più adatti all’agricoltura e la vicinanza del fiume con la possibilità di un più facile approvvigionamento idrico abbiano avuto una loro importanza. (f.b.)

LA ZONA OCCIDENTALE  DI VERONA NELLA PREISTORIA

Alcuni importanti rinvenimenti (purtroppo privi di contesto stratigrafico) testimoniano la frequentazione dell’ area occidentale di Verona da parte dell’uomo preistorico, in epoche molto antiche.

Negli anni '40 e '50 del '900 furono raccolti alcuni materiali ceramici e litici in una cava di ghiaia presso Ponte Catena da P. Leonardi e da F. Zorzi. Si tratta in particolare di alcuni vasi decorati da cordoni a tacche, alcune centinaia di manufatti in seIce di tradizione campignana, tipologia ampiamente diffusa nelle zone collinari e montane del Veronese, nuclei a lamelle, schegge e forme laminari. Tra gli strumenti i più importanti sono sicuramente due lame di pugnale in selce.

Nel 1996 durante i lavori di posa di una fognatura fu rinvenuta in via Meneghetti alla Spianà una lama di pugnale in selce. Al momento del rinvenimento non fu evidenziato nessun contesto archeologico. Successive informazioni hanno fornito indizi, tra cui la presenza di alcune ossa, per ipotizzare che il pugnale possa rappresentare il corredo di una sepoltura. Il pugnale è a peduncolo denticolato, marcato da due profonde tacche laterali e da una tacca sulla punta, databile all' età del rame.

Il sig. Germano Piccoli negli anni successivi ha recuperato altri reperti in selce provenienti da aree arative della Spianà, anch’ essi databili all’ età del rame, tra cui alcuni strumenti, schegge, lame e scarti di lavorazione, manufatti campignani, nuclei a lamelle.

Il rinvenimento più importante è avvenuto nel 2003 durante lo scavo di una necropoli romana in via Tommaso da Vico, non lontano dalla basilica di S. Zeno. Una delle tombe è risultata molto antica, databile all'età del rame. E' stata gravemente danneggiata dalle successive sepolture romane, che probabilmente hanno distrutto anche altre sepolture dello stesso periodo, come testimonia il ritrovamento di una punta di freccia, di lame e di altri strumenti in selce. La tomba era costituita da una fossa ovale, quasi circolare di I,50 x 1,40 m, con le pareti parzialmente foderate di ciottoli fluviali. La fossa era inoltre coperta da altri ciottoli a formare una leggera cupola. Dalla posizione delle ossa, molto danneggiate, si può ipotizzare che il defunto fosse stato sepolto in posizione rannicchiata sul fianco destro, con il cranio a nord-est e lo sguardo rivolto ad ovest, verso il tramonto del sole. Davanti al viso del defunto era deposto un vaso, di cui si conserva solo il fondo, presso i piedi erano deposte quattro punte di freccia e una lama in selce, infine presso la parete est della fossa era deposto un altro vaso decorato da bugnette plastiche.

Questa tomba è particolarmente importante perché, con rare eccezioni, nel territorio veronese le sepolture dell'età del rame presentano un rito diverso. In particolare l’area lessinica si distingue per una diffusa presenza di sepolture in ripari sotto roccia e in grotticelle.  Si tratta di un rito funebre ben diverso da quello delle tombe a fossa, in quanto sono sempre previste deposizioni multiple in momenti diversi, complessi cerimoniali, anche con la manipolazione delle ossa, e corredi composti soprattutto da elementi ornamentali. Tra i materiali, notevole significato rivestono le lame di pugnale in selce, elementi ad alta valenza simbolica che caratterizzano soprattutto le sepolture dell’età del rame, indicando lo “status” del defunto e qualificandolo come uomo dotato di prestigio  all’interno della comunità in cui viveva. (p.s)

LA ROMANIZZAZIONE E LA NASCITA DI VERONA

Con il termine “romanizzazione” si indica il processo complesso e diversificato, attraverso il quale le varie popolazioni della penisola e di gran parte dell’Europa occidentale vennero incluse nel mondo romano. I mezzi di tale assoggettamento, dopo le vittorie in campo militare, furono le strade, le fondazioni coloniali di diritto prima latino e poi romano, le distribuzioni individuali di terre che gradualmente modificarono il paesaggio agrario della valle del Po.

Anche nel caso di Verona, il passaggio della via Postumia costituì un’accelerazione verso la romanizzazione: i mercanti, i soldati, i coloni, i ricchi acquirenti del centro Italia erano portatori di uno stile di vita da cui le classi dirigenti locali, ansiose di integrarsi nel sistema politico romano, dovevano sentirsi attratte, se ben presto importarono e poi cercarono di imitare il vasellame da mensa, se cominciarono a usare la moneta come mezzo quotidiano di scambio, se impararono l’alfabeto e la lingua. In alcuni aspetti, però, quelli più profondamente conservativi quali il rituale funerario, la popolazione indigena mantenne lungamente la tradizione.

Conosciamo pochissimo del centro premunicipale, che si trovava sulla collina di San Pietro, e che tra il 90 e l'80 a.C, venne munito con un potente bastione di difesa: possiamo supporre che abbia consolidato la sua consistenza urbana dopo che la crisi dell’incursione dei Cimbri alla fine del II sec. a.C. ne rivelò tutta la valenza strategica difensiva allo sbocco della val d'Adige.
Conosciamo, invece, vaste necropoli, attribuite alla tribù dei celti cenomani, nella pianura a sud della città che dovevano essere pertinenti a villaggi di cui si è persa ogni traccia e che dovevano avere un capoluogo nell’ oppidum della collina.

Sul piano giuridico, nell’89 a.C.; come conseguenza della guerra sociale (91-87 a.C.), Verona ottenne con altri centri transpadani lo statuto di colonia latina fittizia e la concessione della cittadinanza romana per i notabili che esercitassero le magistrature, elemento che portò a compimento l’assimilazione delle élites  locali.  Negli anni successivi, soprattutto per impulso di Giulio Cesare, le comunità della Transpadana non ancora in possesso della cittadinanza romana realizzarono il riconoscimento dei loro sforzi per una completa parità di diritti con il resto d'Italia. Così anche Verona divenne un municipium civium Romanorum nel 49 a.C. e il raggiungi mento di questo traguardo comportò una profonda trasformazione che ha i suoi punti qualificanti nell'urbanizzazione e nella riorganizzazione delle proprietà agrarie attraverso la centuriazione.

Venne distrutto il centro sulla collina per lasciare spazio ad edifici per spettacoli e religiosi e ricostruito nello spazio pianeggiante entro l'ansa. (a.a.)

LA VIA POSTUMIA: DALLA CITTA' ALL' ARCO DEI GAVI

La via Postumia, aperta ufficialmente nel 148 a.c., collegava Genova con Aquileia e, incrociando a Piacenza la via Emilia, costituiva un elemento fondamentale di raccordo con Roma per tutto il nord Italia. Il nome le deriva dal console Spurio Postumio Albino incaricato della sua realizzazione come documenta un cippo stradale trovato fra Cremona e Verona.

A Verona provenendo da est, la via risaliva l’ansa dell' Adige e in corrispondenza dell’abitato protostorico situato sul colle di S. Pietro, del quale le Vicende costruttive di età successiva hanno cancellato quasi completamente le tracce, attraversava il fiume su un ponte di legno, più tardi ricostruito in pietra. Intorno alla meta del I sec. a.C., quando venne realizzato l’impianto in destra d'Adige la via Postumia  passò il fiume più a valle su un nuovo ponte, il cosiddetto Postumio.

Essa assunse la funzione di decumano massimo e rappresentò l’asse portante nord-est/sud-ovest per ogni corrente di traffico locale, regionale e interregionale.

La strada, larga 6 m, era fiancheggiata da due marciapiedi di 3 m ed era rivestita di basoli di basalto nero, molto resistenti all’usura del traffico. Nel tratto suburbano, invece, presentava una corsia centrale sempre in basalto e due corsie laterali in calcare. Proseguendo verso il suburbio la via continuava con superficie glareata e fossati laterali.

Nel complesso abbiamo la testimonianza del passaggio della via Postumia nella Verona romana per 5 miglia: via S. Nazaro, Muro Padri, Giardino Giusti, S. Maria in Organo, Santa Chiara, Redentore, corso S. Anastasia, porta Borsari, Cavour, Castelvecchio, porta Palio.

Nel tratto urbano prospettava sulla via con scalinate e porticati monumentali una serie di edifici pubblici di carattere religioso e politico. Tra questi il più notevole era il complesso dedicato a Giove Capitolino, costituito da un tempio centrale e da un triportico su piattaforma compresa per tre lati entro un criptoportico.  Gli isolati laterali nella prima metà del I sec. d.C. furono occupati da edifici pubblici di grande rilievo in ambito cittadino, di quello ad ovest è stato possibile definire la planimetria: si tratta di una piazza sopraelevata, con portici attorno ad un piccolo edificio di culto. 
Di fronte al Capitolium si stendeva l’ampia spianata del foro, cuore della vita cittadina, sul quale si aprivano le botteghe e che appariva gremito di monumenta in onore di illustri personaggi veronesi e forestieri. I  successivi isolati erano occupati da piazze, una antistante la curia e l'altra relativa a un  tempio del culto imperiale.

li piccolo arco tetrapilo di Giove Ammone, del quale rimane in situ un piedritto, costituiva l'ingresso  monumentale al settore pubblico ad ovest del foro. Oltre l'arco era una fontana monumentale, mentre gli ultimi isolati prima delle mura erano occupati da quartieri residenziali di tenore elevato come testimoniano sectilia, pavimenti a mosaico e su ipocausto.

La strada poi si allargava per imboccare i due fornici della porta, all'esterno della quale chi passava lasciava alla sua destra il tempietto di Giove Lustrale e forse una stazione di posta dove aveva sede l'associazione dei mulattieri di porta Iovia di cui conosciamo l’esistenza da un’epigrafe che documenta il nome antico della porta e che forse è da riconoscere in un edificio di cui si è visto il piano interrato con un nifeo con notevoli affreschi.

Fino all'arco dei Gavi il tronco suburbano della Postumia era fiancheggiato da una serie di ricche domus.

L’arco dei Gavi materializzava la cesura tra la città con la sua fascia di espansione edilizia fuori le mura  e le successive necropoli, costituendo un’ anticipazione rispetto alla porta urbana, ma anche l’ingresso monumentale ai sepolcreti. (g.c.m.)

LA VIA POSTUMIA AD OCCIDENTE DELLA CITTA' FRA NECROPOLI ED IMPIANTI PRODUTTIVI

I recenti scavi archeologici hanno messo chiaramente in evidenza come le grandi arterie del traffico interregionale, la via per Brescia e la via Claudia Augusta  Padana,  convergevano tutte sulla via Postumia mediante una serie di bretelle.

Il paesaggio ai lati delle strade alternava impianti produttivi e artigianali ad aree funerarie e a zone di coltivo con edifici rustici.

Sulla Postumia, le necropoli sono situate ad una notevole distanza dalle mura, almeno 500 m, e in generale non hanno restituito grandi monumenti sepolcrali, che tuttavia dovevano esistere, ma che il tempo ha cancellato. Ben documentati sono invece i recinti: strutture di forma quadrangolare che racchiudevano più sepolture o di gruppi parentali o sociali.

Gli scavi archeologici degli ultimi venti anni, a partire dal 1990, hanno restituito lungo il tronco sud occidentale della Postumia tre nuclei principali, quello di porta Palio, di Spianà e di via Albere, oltre a quelli più ridotti di vicolo S. Silvestro e di vicolo Scalzi.

Il numero più consistente di tombe è costituito da incinerazioni in fossa semplice entro cinerario, ma sono ben documentate anche le incinerazioni in anfora, cista di pietra, cassa di laterizi con nicchie laterali, cassette cubiche in laterizi e cappuccine. In numero minore sono le inumazioni in cappuccina e cassa l ignea.

A porta Palio, la necropoli è stata scavata a nord e a sud della strada. Qui si estendeva per 160 m, mentre a nord è stata vista per 140 m senza raggiungere il limite delle deposizioni. I pochi recinti sono allineati con la Postumia e contengono un gran numero di sepolture.

Alla Spianà, dove la necropoli è stata vista sul lato nord della strada che in quest'area risulta all'esterno dello scavo, le tombe erano molto più numerose e molto più fitte e disordinate nella disposizione. E' stato riconosciuto un muro che chiudeva ad est la necropoli, al di là di esso si sviluppava un grande impianto per la produzione di tegole e mattoni.

In via Albere si è riscontrata una precisa organizzazione degli spazi sia rispetto alla Postumia, sia rispetto alla disposizione delle tombe che risultano regolarmente allineate lungo il lato sud della strada,  oltre il fosso laterale, servite da un marciapiede e scandite a distanze fisse da una serie di segnacoli in posizione di crollo entro il canale che divideva la necropoli dalla campagna.

L'impressione generale ricavata dalla documentazione è che le varie aree fossero in funzione contemporaneamente e che la scelta del luogo di sepoltura dipendesse da fattori che non derivavano dalla saturazione di zone più vicine alle mura. Il  periodo di utilizzo va dalla fine del I sec. a.C. al III-IV sec. d.C.

Dall'esame dei corredi si desume che, a parte qualche eccezione, le aree sopra menzionate fossero utilizzate da ceti senza grandi possibilità economiche. (g.c.m.)

LE SEPOLTURE LUNGO LA VIA POSTUMIA:  RITI E CORREDI FUNERARI

La legge romana stabiliva che i defunti non potessero essere né seppelliti né cremati all'interno delle città; per questo, perlomeno fino alla tarda antichità, i cimiteri furono posti fuori delle mura che delimitavano gli impianti urbani. Verona non fa eccezione: solo con I'altomedioevo si introdusse la pratica delle sepolture intra muros.

Per le sepolture, le posizioni più ambite - e quindi proprie delle famiglie ricche - erano le aree più vicine alla città, non lontano dalle principali porte d'ingresso, dove il passaggio di cittadini e stranieri era più intenso e quindi i monumenti funebri avevano maggiori possibilità di essere visti e ammirati. Le necropoli più distanti, come quelle di Porta Palio e della Spianà, erano utilizzate soprattutto dalle categorie meno abbienti. Perciò in genere i materiali rinvenuti in queste tombe sono piuttosto modesti, ad esempio vi sono rari i vasi in metallo, che avevano un costo più elevato rispetto a quelli in ceramica e in vetro.

D'altra parte si riteneva importante fornire al defunto oggetti che lo accompagnassero nell'aldilà, spesso recipienti da tavola usati anche nella vita quotidiana o durante gli stessi riti funebri, come il banchetto dei familiari. Nel caso delle sepolture a cremazione, le più diffuse nei primi due secoli dell' età imperiale, alcuni oggetti venivano deposti sulla pira e recano quindi evidenti segni di combustione, altri invece - nuovi o usati - erano collocati nella tomba, insieme con le ossa cremate. A volte la presenza di ornamenti personali, complementi di abbigliamento, strumenti da lavoro o giocattoli fornisce indicazioni su età, sesso e attività del defunto, che possono essere confermate dalle analisi osteologiche, meno significative però nel caso delle cremazioni.

La pratica dell’inumazione è più consueta nel II-III secolo fino a divenire esclusiva in epoca tardoantica.  Però per i bambini, soprattutto fino ai due anni di età, l'inumazione restò sempre il rito più diffuso, con l'utilizzo di tombe molto semplici (fosse in terra, talvolta con pareti e copertura in ciottoli o laterizi) e spesso senza alcun corredo, oppure solo con le collane o i braccialetti che portavano in vita a scopo protettivo. (m. b.)

Le procedure di ricerca

La scoperta di un numero elevato di tombe nelle necropoli della  via Postumìo (550 li Porta Palio, 770 alla Spianà) ha comportato problemi diversi:  è necessario predisporre un apposito data-base per la registrazione delle tombe e degli oggetti  con un’ interpretazione preliminare; man mano che  si procedeva nella schedatura, con il controllo delle piante e delle osservazioni effettuate  al momento dello scavo, venivano realizzati - dì pari passo con gli interventi  conservativi e di restauro - i disegni almeno degli oggetti più significativi e  meglio conservati,  indispensabili  per poter procedere in  seguito allo studio dei materiali,  individuando a quali tipi e quindi a quale periodo attribuirli per potere poi trasferire questi dati nell’analisi   delle sepolture  e stabilirne la sequenza cronologica.   Passi successivi  sono stati l’approfondimento  dei rituali riscontrati  e il confronto con altre necropoli dell’Italia settentrionale  e dell’impero romano

LA VIA "GALLICA"

Non si conosce il tracciato della via per Brescia, tuttavia è probabile che la strada si staccasse dalla via Postumia più ad ovest dell’arco dei Gavi in direzione nord, tenendosi alle spalle della basilica di S. Zeno.

Questo percorso è suggerito dalla presenza sia di una vasta necropoli, sostanzialmente tardo antica, che si estende tra piazza Corrubbio, piazza Pozza e via Spagna e sia di ampie aree funerarie verso il fiume, quelle di via da Vico e vicolo caserma Chiodo.

E' probabile che tali cimiteri rappresentassero un complesso unitario, traversato dalla strada in senso nord-sud. Esso fu utilizzato tra il I e il V secolo e per una parte, là dove sorsero gli edifici religiosi, sfruttato più intensivamente dall'età tardo antica al Medioevo.

Gli scavi più recenti, effettuati negli anni 2003-2004, documentano 81 sepolture, di cui 46 incinerazioni e 28 inumazioni. Sono rappresentate varie tipologie: in fossa semplice e in muratura riunite in gruppi familiari entro recinti costruiti in ciottoli fluviali e frammenti di laterizi.

Singolare caratteristica di questa necropoli è la presenza di 7 strutture a camera interrata, costruite sia in ciottoli che in laterizi, con nicchie realizzate utilizzando olle ceramiche o costruite in mattoni. Sono state interpretate come camere ipogee di strutture tombali probabilmente familiari, forse chiuse da una volta, ma di cui non si conosce lo sviluppo fuori terra.

Il tracciato in prossimità di viale Cristoforo Colombo avrebbe piegato bruscamente verso ovest, in direzione della strada vicinale Cavallara, nei cui pressi, nel 1962, vennero alla luce due tombe e un’iscrizione funeraria. (g.c.m.)

LE DUE FATTORIE DELLA SPIANA': ASPETTI ARCHITETTONICI

L' area della Spianà situata in prossimità della scarpata che divide la zona depressa del “piano di divagazione dell' Adige” e la zona più elevata del “conoide dell' Adige” è stata oggetto negli ultimi anni di ripetute ricerche di superficie da parte di Germano Piccoli.  Queste ricognizioni hanno portato alla scoperta di due siti - uno nei pressi di via San Marco (sito A) e l’altro più a sud nelle vicinanze della tangenziale (sito B) - i quali, per la vicinanza alla città e per i materiali rinvenuti, possono essere identificati come domus suburbane, vale a dire degli edifici, collegati a dei fondi rustici, dotati di ambienti residenziali con pavimenti a mosaico ecc.

Anche se le due aree non sono state oggetto di scavo, l’esistenza di antichi edifici è testimoniata da alcune classi di reperti:

- le tessere musive che documentano l'esistenza di pavimenti in mosaico; si sono trovate molte tessere in pietra di colore bianco, qualcuna di colore grigio-nerastro e due in pasta vitrea (una verde ed una blu);

- gli intonaci parietali dipinti che documentano l'esistenza di pareti affrescate di colore rosso;

- le lastre e cornici in marmo di importazione o in rosso ammonitico utilizzate probabilmente per rivestimenti parietali;

- i tubuli che documentano la presenza di impianti di riscaldamento (la presenza di solcature parallele o che formano motivi a  a rombo era dovuta all' esigenza di far aderire meglio l'intonaco);

- indizio dell'esistenza di antichi edifici sono poi vari frammenti di tegoloni, anche se va sottolineato che questi in età romana, oltre che per la realizzazione di murature e coperture, potevano essere utilizzati in ambito funerario per sepolture a cassa o alla cappuccina. Alcuni presentano anche il marchio di fabbrica SIS oppure mostrano delle impronte di animali che probabilmente passarono involontariamente sui laterizi crudi durante la fase di essiccazione.

Tutti questi reperti documentano con certezza la presenza di edifici, dei quali però nulla possiamo dire circa la pianta o le caratteristiche delle fondazioni e dell 'alzato; in proposito va però ricordato che per queste costruzioni, oltre ai laterizi, si dovettero utilizzare ciottoli fluviali (presenti in loco in grande quantità) e materiali lignei, che per la loro deperibilità non si sono conservati. (f.b.)

LE DUE FATTORIE DELLA SPIANA': GLI OGGETTI  D’USO DOMESTICO

Le ricognizioni di superficie nell' area delle due fattorie non hanno portato al recupero solamente di materiale architettonico ma anche di vari oggetti che ci forniscono informazioni sul vasellame che  veniva utilizzato per cucinare e per consumare i pasti, sull' arredo, sui consumi alimentari e sulle attività produttive. Questi oggetti, oltre a documentare la vita domestica, forniscono anche preziose informazioni  di carattere cronologico e sui traffici commerciali dell' epoca.

Riguardo al vasellame, oltre a molta ceramica da cucina con  impasti grezzi, capaci di resistere al fuoco, numerosi sono stati  i ritrovamenti di ceramica fine da mensa: si va dalle produzioni  di area nord-italica di età tardo repubblicana/prima età imperiale come la ceramica grigia, la ceramica a vernice nera, la ceramica   a pareti sottili, la terra sigillata nord-italica (anche con decorazioni a rilievo), a ceramiche importate da aree geograficamente molto lontane come l'Asia Minore (I-II sec. d.C.) da dove viene la  cosiddetta terra sigillata orientale B e il territorio dell' odierna  Tunisia, da dove viene la cosiddetta terra sigillata africana (IV- V sec. d.C.).

Nella mensa non mancavano inoltre contenitori in vetro, anche  di un certo pregio, come testimonia il ritrovamento di un orlo di brocca decorato con tecnica a spruzzo e quello di una coppa costo lata; mancano invece testimonianze del più prezioso vasellame metallico.

Nell'arredo domestico grande importanza avevano le lucerne, che nelle case romane sono le principali fonti di illuminazione: nelle nostre abitazioni ne sono stati trovate diverse (tutte però frammentate) tra cui alcune con il marchio FORTIS, un bollo molto diffuso soprattutto in area padana.

Le anfore da trasporto documentano il consumo di vino, olio e forse di salse di pesce, ma documentano anche l'esistenza di traffici commerciali a largo raggio: infatti oltre a contenitori di provenienza adriatico-padana, troviamo anfore di provenienza iberica, nord-africana (Algeria e Tunisia) ed egeo-orientale.

Fra le attività che si dovevano svolgere in queste abitazioni, c'erano la tessitura, di cui è indizio una fusaiola in piombo e la produzione di farina, probabilmente a livello domestico, come testimonia un frammento di macina granaria in pietra arenaria.

Infine merita una segnalazione il recupero di una ventina di monete (soprattutto nell'area dell'edificio A): se si eccettua una moneta in bronzo di Traiano, tutte le altre sono databili tra la seconda metà del III e il IV secolo d.C.; si tratta di antoniniani (monete in uso nel III sec. con una percentuale d'argento che va sempre più riducendosi) e piccoli bronzi di IV secolo: fra le altre si riconoscono emissioni degli imperatori Claudio il Gotico, Aureliano, Probo e Caro (III sec.), Licinio, Costantino il Grande, Costante, Valente e Graziano (IV sec.): sono esemplari di poco valore che comunque, oltre ad essere un importante elemento di datazione, documentano la capillare diffusione della moneta come mezzo di pagamento. (f.b.)

RITROVAMENTI  DI ETA' MEDIEVALE   E MODERNA ALLA  SPIANA

Nei siti della Spianà dove si sono individuate le due abitazioni di età romana ma anche nei terreni circostanti sono stati recuperati numerosi oggetti che datano da epoca basso medievale fino quasi ai nostri giorni. Alcuni oggetti sono databili antecedentemente alla spianata di inizio Cinquecento, ma al momento nei luoghi di ritrovamento di questo materiale non è stato individuato nessun indizio relativo ad una qualche struttura edilizia coeva. Si deve pensare ad oggetti di scarto gettati volontariamente dagli abitanti delle vicinanze (per esempio le stoviglie o i vetri rotti) oppure ad oggetti perduti: è il caso, per esempio, di una moneta emessa a Milano nella  seconda metà del Quattrocento da Galeazzo Maria Visconti.

Molto abbondante è il vasellame ceramico. Oltre a qualche frammento attribuibile a catini e secchielli con impasto grezzo e privi di rivestimento (usati soprattutto per la cottura dei cibi) forse collocabili nel XIV-XV secolo, sono stati recuperati parecchi esemplari di ceramica rivestita utilizzati   in genere come vasellame da mensa che datano dal XV al XIX secolo.

In particolare meritano una segnalazione le ceramiche invetriate graffite (XV-XVI secolo): queste ceramiche, una volta essiccate venivano ricoperte da un ingobbio (sottile strato di argilla di colore chiaro) e quindi cotte una prima volta; a questo punto venivano dipinte e decorate con incisioni; infine erano ricoperte da un rivestimento vetroso con una certa percentuale di piombo con funzione impermeabilizzante e cotte di nuovo. I principali colori utilizzati erano il verde ramina, il giallo ferraccia, il bruno maganese e il blu cobalto; fra le decorazioni molto comuni sono le teste di angioletto e i motivi geometrici e floreali.
Nel secolo XVI compaiono ceramiche in cui la decorazione è ottenuta non con uno strumento a punta ma con una stecca: esse presentano una decorazione geometrica in monocromia verde o lionata (così chiamata per il colore fulvo simile a quello del pelo del leone).

Troviamo poi ceramiche invetriate “marmorizzate” con ornati di colore blu o marrone brunastro, ceramiche invetriate dipinte in blu o anche in altri colori su ingobbio e ceramiche invetriate monocrome di colore verde, giallognolo e marrone. Interessanti sono alcuni frammenti di maioliche (ceramiche con rivestimento a base di piombo e stagno) su fondo berrettino (smalto arricchito da una piccola quantità di azzurro cobalto) (metà XVI-metà XVII secolo).  (f.b.)

L’AREA DI SAN ZENO FRA TARDO ANTICO E ALTO MEDIOEVO MEDIOEVO: GLI EDIFICI RELIGIOSI

Fra tardo antico ed alto medioevo l'area adiacente alla basilica di S. Zeno doveva apparire fitta di edifici religiosi, circondati da sacelli e da lapidi funerarie.

Le indagini archeologiche intraprese nella chiesa di S. Procolo nel 1986 hanno potuto stabilire la presenza di un impianto paleocristiano databile al V-VI secolo, più volte ipotizzato ma per la cui esistenza mancavano dati obiettivi: l'edificio era ad aula unica, misurava approssimativamente 32 metri di lunghezza per oltre 11 di larghezza ed era pavimentato in gettate di malta almeno nel settore centrale. La zona esterna alla chiesa presentava una pavimentazione in lastre calcaree, alcune delle quali erano coperture di tombe.
La successiva ricostruzione comportò l'allungamento della chiesa di oltre 6 metri, con rifacimento della facciata, sopraelevazione della zona presbiteriale e impianto della cripta.
Quest'ultima è strutturata in tre navate, con archi a tutto sesto e volte a crociera, impostate su sei colonne di reimpiego e su dodici lesene addossate ai muri perimetrali; su colonne e lesene appaiono riutilizzati capitelli provenienti da spogli da edifici precedenti, esistenti nell’area della chiesa. In base ai dati stilistici, alcuni capitelli risalgono all'VIII secolo, altri al IX-X. La cripta e l'allungamento della chiesa sarebbero quindi da riferire al secolo a cavallo dell'anno mille.

Un'altra piccola chiesa è stata riportata alla luce nel corso degli scavi archeologici del 2009 in piazza Corrubio. Alla profondità di circa 60 cm dal piano stradale attuale, sono riemersi i resti, estremamente residuali, di un' abside e di parte dei muri perimetrali di una struttura a navata unica, orientata in senso Sud-Nord e quindi con possibile sviluppo sotto via S. Procolo, per una lunghezza ipotetica complessiva di una trentina di metri.  La parte vista è stata rasata in antico e poi profondamente intaccata da interventi per la posa di sottoservizi.
La sua attribuzione rimane per ora ignota; certo non può trattarsi della chiesa di S. Vito, nominata tra quelle restaurate insieme a S. Procolo e a S. Zeno dall’Arcidiacono Pacifico nel IX secolo, perché questa si trovava dietro all'abside di S. Procolo, in corrispondenza della sala dell'ex cinema Esperia. La chiesa venne distrutta, ma una recente indagine archeologica ne ha riportato alla vista gli avanzi. (a.a. - g.c.m.)

L’AREA DI SAN ZENO FRA TARDO ANTICO E ALTO MEDIOEVO MEDIOEVO: LE AREE FUNERARIE

Nell’area di  S. Zeno si stendeva un ampio sepolcreto, sorto a partire dal V secolo, legato alle chiese di S. Procclo, San Vito e Modesto e S. Zeno. La sua estensione andava verso ovest fino a piazza Pozza, a nord fino agli Orti di Spagna e a sud fino a via Mantovana, oggi via Scarsellini.
Esso in parte lambisce, in parte si sovrappone ad una più antica necropoli che si sviluppava dall'odierno ponte Risorgimento fino all’estremità sud dell'attuale via Tommaso da Vico, per una larghezza compresa tra la sponda del fiume e l'allineamento di via Abazia o un po' più ad est.
Nessun'altra necropoli veronese ci ha tramandato materiale epigrafico copioso e significativo quanto questa, il cui significato nell'ambito della romanità di Verona era già noto nel Rinascimento, attraverso ripetuti ritrovamenti che offrono un'idea della ricchezza dei suoi monumenti funerari.

Del cimitero medievale, alcune sepolture furono individuate nel corso dei lavori realizzati nel 1986 per il recupero della chiesa di S. Procolo. Qui, sopra le tombe romane, giaceva un riporto di terra alluvionale, entro il quale furono scavate diverse tombe a cassa in lastre di calcare, databili al pieno V secolo.

Negli anni 2009 e 2010  un’indagine archeologica nell'area di piazza Carrubio ha portato all'individuazione di 241 tombe, alcune plurime, ascrivibili ad un arco cronologico compreso tra la fine del III e l'VIII - IX (?) secolo. La vita del sepolcreto si sarebbe poi prolungata fino al XII secolo. Tutto il cimitero appare sconvolto, e in parte distrutto, per la collocazione di sottoservizi.

La tipologia delle sepolture comprende deposizioni in nuda terra, alla “cappuccina”, in cassa di laterizi e in casse, dotate di poggiatesta, di lastre di pietra di Prun.  La deposizione in anfora appare riservata solo agli infanti. I defunti non sono accompagnati da corredo, solo in rarissimi casi nelle tombe si è ritrovato un oggetto di ornamento o di uso personale; in mancanza quindi di altri elementi sono la differente tipologia delle tombe e il diverso livello che suggeriscono una sequenza diacronica e forse una differenziazione sociale.

Oltre a queste sepolture sono state riportate alla luce alcune strutture. La più interessante è costituita da un vano centrale rettangolare sul quale si affacciano tre absidi di dimensioni pressoché uguali. I muri, conservati in modo parziale e per lo più a livello di fondazione, sono costruiti con paramento esterno di filari di ciottoli disposti a corsi piuttosto regolari, mentre l'interno della muratura è realizzato a sacco. Sono stati notati alcuni indizi di rifacimenti successivi al primo impianto della struttura che sembrano testimoniarne un uso prolungato e un probabile riutilizzo per almeno due fasi di deposizioni.
Nelle due absidi, orientale e occidentale, e nel vano centrale sono stati rinvenuti solo dei tagli molto ampi a testimonianza della totale asportazione delle tombe presenti. Le dimensioni della costruzione, con l'articolazione in tre absidi, e la disposizione di tombe nell'area esterna adiacente all'edificio suggeriscono che forse vi si potessero svolgere riti funebri in funzione dell'intero sepolcreto.
Nella zona meridionale del cantiere si sono individuate due strutture interpretabili come tombe di famiglia di aspetto monumentale: una absidata ed un'altra di cui è stato messo in luce un vano di forma rettangolare. Inoltre è in corso di scavo una struttura costituita da una camera rettangolare interrata, preceduta da un piccolo ambiente - una sorta di anticamera - nel quale sono state progressivamente aggiunte delle sepolture fino al numero complessivo di 18. (a.a. - g.c.m.)

LA DINAMICA INSEDIATIVA NELL’AREA DI PIAZZA CORRUBIO  TRA MEDIOEVO E PRIMA ETA’ MODERNA

La fondazione della chiesa di San Zeno, avvenuta presumibilmente all'inizio del IX secolo, costituisce il fatto più rilevante per la conformazione urbana e residenziale della zona. Il vicus o villa S. Zenonis   avrebbe rappresentato, tra gli insediamenti suburbani veronesi, quello più lontano dal corpo della città.

Una serie di lottizzazioni ha luogo - almeno tra 1190 e 1191 come indicano i documenti - nei pressi dell’abbazia di San Zeno, lungo la platea antistante oppure lungo le vie che si aprono dalla piazza verso nord, ma non possiamo escludere che i fatti nel tempo abbiano interessato anche il fronte settentrionale di piazza Corrubio.
All'inizio del Duecento era stata lottizzata la braida donica hospitalis  S. Zenonis  che doveva essere situata extra fossatum burgi;  nel contempo si sarebbe costruito anche in altre località come Portafura presso l'attuale porta Catena; altri insediamenti si ritrovano nel corubium sive platea,  ovvero lungo l'attuale piazza Corrubio.  
All’esistenza di clusi domorum, uno specifico tipo edilizio, fa via via riferimento la documentazione dell'abbazia di San Zeno; nel 1210 si incontra una ben definita tipologia edilizia quando un atto viene steso in burgi S. Zenonis sub porticu domus Adamanti de Pistoribus.
In sostanza una serie di lottizzazioni portano alla regolarizzazione del controllo da parte delle istituzioni ecclesiastiche e alla nascita dei fronti stradali che definiscono, in particolare, le attuali piazza Corrubio, via del Bersagliere e vicolo dietro Caserma Chiodo e, forse, le vie Barbarani e San Giuseppe.
Negli anni seguenti la tipologia contrattuale stesa fra enti ecclesiastici e proprietari tende a vietare la costruzione di caseforti e quindi impedisce la costruzione di torri: un fenomeno che avrebbe inciso nel lungo periodo, non favorendo l'installazione di famiglie aristocratiche e provocando, in età veneta, una modesta attività di costruzione di palazzi la cui assenza si riflette nel tono dimesso dell'edilizia privata della zona di San Zeno.

La suddivisione amministrativa della città in contrade interessa direttamente piazza Corrubio che si troverebbe a costituire un punto di confine fra la contrada di Beverara e quella di San Zeno Superiore detta anche San Zeno di Sopra.
L'attestazione dell'esistenza di piazza Corrubio si ha i14 gennaio 1219 quando si fa riferimento ad una terra casaliva in burgo S. Zenonis ante hospitale supra corobium.
L'ospedale di San Zeno, al quale fa riferimento l'atto del 1219, doveva forse trovarsi lungo il lato nord della piazza appartenendo al borgo di San Zeno, più vicino tanto all'abbazia, quanto a San Procolo.  In un documento del 1217 si descrive l'ospedale come dotato di portico dal momento che l'atto notarile è steso sub porticu domus hospitalis. (s.l.)

IL SISTEMA VIARIO NELL'AREA DI PIAZZA  CORRUBIO TRA MEDIOEVO E  PRIMA  ETA' MODERNA

Fino all'inizio del XVI secolo nell'area dove si situa piazza Corrubio le due porte urbane principali realizzate su iniziativa scaligera erano quella di San Massimo e la cosiddetta porta Fura o Catena.  
La prima si apriva verso occidente a conclusione dell’ asse stradale regaste San Zeno, via San Giuseppe e via Scarsellini;  la seconda segnava la conclusione della via del Bersagliere verso nord. All'esistenza di questi varchi nelle mura fa riferimento la cosiddetta Carta dell' Almagià del XV secolo.  La situazione relativa alle mura e ai varchi sarebbe stata modificata solo dopo le guerre cambraiche (1509-1517),  quando Venezia riprende il controllo sulle città suddite e rinnova il sistema difensivo scaligero ormai obsoleto.
Nella zona occidentale della città viene chiusa la porta di San Massimo e rinnovata una preesistente porta detta “Nuova” che avrebbe poi portato il nome di San Zeno con una conseguente drastica alterazione del sistema viario dell’area simile a quanto avviene, nel contempo, nell'area della Cittadella. Dei precedenti varchi aperti nel Trecento sarebbero rimasti in funzione solo la porta Fura e, più ad oriente, quella del Palio.

Un disegno e un’incisione di Giovanni Caroto del quarto decennio del Cinquecento confermano questo stato di cose; il percorso che usciva dalla città attraverso la porta di San Massimo era sottolineato dall’installazione del monastero delle monache di San Giuseppe avvenuto nel tardo Quattrocento.
Ad un ulteriore edificio ecclesiastico situato verosimilmente lungo l’attuale via Scarsellini, la chiesa di San Luca, fa riferimento Giambattista Biancolini alla metà del Settecento.
Negli anni in cui lo storico veronese stende la sua opera sulle istituzioni ecclesiastiche di Verona la piccola chiesa era da tempo scomparsa. Biancolini la colloca lungo la via Mantovana (che coincide appunto con via Scarsellini) e ricorda che un vicolo in prossimità dell’edificio ne portava il nome (l’'unico riconoscibile tanto attraverso la cartografia quanto nella situazione attuale si trova sul lato meridionale della medesima via).

Il locale voltato e retto da colonne apparso recentemente al di sotto dello stabile di piazza Corrubio 35,  potrebbe coincidere con la cripta della chiesa di San Luca la quale verosimilmente si sviluppava dalla parte opposta rispetto alla piazza cioè verso via Scarsellini, come suggerirebbero anche le parole di Biancolini.

Questa chiesa,  che doveva aver perso il suo ruolo in tempi lontani, venne poi completamente cancellata dagli interventi edilizi moderni che chiusero l’affaccio dell'isolato su piazza Corrubio lasciando ampi spazi vuoti al suo interno.  (s.i.)

LA ZONA OCCIDENTALE DI VERONA NEL MEDIOEVO

Quartiere Navigatori - Porta Fura e Porta della Catena, poste entrambe a ridosso della riva destra dell’Adige a poca distanza  dal moderno Ponte Catena, Ponte Catena, costituiscono  i più antichi  e notevoli esempi di  architettura militare presenti nell’attuale quartiere Navigatori.
Appartengo ad  una struttura fortificata complessa nota in età  moderna come Mezzo Bastione della Catena superiore  frutto di successivi interventi costruttivi a partire dal XII secolo e completati solamente nell’Ottocento dagli Austriaci.  
Lungo il lato sud  del complesso si apre la Porta Fura (forse dal tedesco Füren , condurre), rivolta verso il fiume. Ricordata fin dal 1195 era in origine uno degli ingressi che si aprivano nel muro di recinzione dei possedimenti della vicina abbazia di San Zeno.
Questo fu poi sostituito dalle fortificazioni scaligere iniziate da Cangrande della Scala nel 1321,  che qui si concludevano ad angolo e formavano uno sperone sporgente sulla riva, munito di ventidue torrette.  Ad esso era fissata una catena stesa attraverso il fiume che serviva per il controllo militare e doganale dell’Adige. Una torre costruita arditamente nel mezzo del fiume, tuttora conservata, reggeva uno dei capi della catena. A nord dello sperone, in  direzione dell’attuale via Porta Catena, fu infine aperta la Porta della Catena, mentre Porta Fura, divenuta ora semplice pusterla, si venne a trovare all'interno della nuova cinta muraria.

Saval - Il quartiere moderno del Saval che attualmente si estende tra via Luigi Galvani, viale Cristoforo Colombo e le sponde dell’ Adige conserva in realtà alquanto impropriamente il proprio appellativo, in quanto l’originaria contrada di “Savalus” o “Savallis”, ricordata fin dal 1178, sorgeva lungo la riva sinistra del fiume, oltre il Lungadige Attiraglio e la diga di Chievo. Qui, chi arrivava da nord a bordo di barche trovava un porto fluviale attrezzato già nel 1260 .

Chievo, Sorte, Bionde - La località di Chievo (più precisamente Chievo al Mantico) costituiva l’ultima propaggine occidentale della vasta area urbana di Verona. Oltre il Mantico, quasi completamente ricoperto da alberi di alto fusto, si estendeva la Campagna (“Campanea maior”), una vasta zona per lo più paludosa o ghiaiosa, in genere piuttosto arida, dove scarsi erano gli insediamenti dell’uomo. Costituiva proprietà in comune dei cittadini veronesi e serviva all’origine per il pascolo del bestiame e la raccolta della legna. In seguito, soprattutto a partire dal XIII secolo, le autorità comunali ne autorizzarono la parziale concessione in affitto e ne promossero la colonizzazione.

Il nome di Chievo deriva dalla parola latina “clivus”, ossia pendio, che indicava la modesta altura posta a ridosso dell’ Adige, alla cui base era sorto in epoca antica l’abitato. Della sua esistenza si ha notizia a partire dal 1189, quando le decime ecclesiastiche raccolte nell'area circostante furono devolute, non senza opposizione da parte di altre chiese cittadine, alla lontana pieve di Villafranca.  Successivamente l’abitato di Chievo fu unito ad un quartiere urbano, quello di San Zeno Superiore dove sorgeva la basilica, e in tale condizione è attestato nel 1425. La vicina contrada di Perloso era già una realtà nei primi anni del Duecento, mentre località come la Sorte e le Bionde troveranno spazio nella documentazione solo alla fine del Trecento o all’inizio del Quattrocento.

Boscomantico - Lo sfruttamento dei boschi del Mantico (“nemora Mantici"), che crescevano sul terreno demaniale della Campagna Maggiore ai confini con Chievo, fu assegnato in godimento all'abbazia di San Zeno, che qui inviava periodicamente i propri servi a raccogliere legna per le necessità del monastero, da Pipino figlio di Carlo Magno e re d'Italia (781-810).
Rimasta per secoli possesso esclusivo dei monaci, l’area boscosa attrasse in seguito l'interesse del comune di Verona.  La città ne volle infatti rivendicare la giurisdizione e nel 1178 inviò sui luoghi alcuni esperti per rilevare con esattezza i confini.  Emerse tuttavia al termine dell’indagine la buona fede degli abati e il loro diritto fu riconosciuto anche negli statuti comunali di inizio Duecento.  Il territorio conosceva nel frattempo nuove forme di sfruttamento e accoglieva i primi insediamenti di coloni incaricati di procedere al disboscamento e alla messa a coltura di terreni agricoli.
Nel 1331 l'area fu sottratta al controllo di San Zeno e concessa in feudo dal vescovo di Verona a Mastino II e Alberto II della Scala, signori di Verona, i quali vi posero i propri vassalli. L’originaria compattezza del Mantico zenoniano così si infranse e già alla fine del Trecento risultava completamente frammentato e svincolato dal controllo dei monaci. Quando, nel 1425, i Veneziani ricostituirono il patrimonio di San Zeno e restituirono dignità al monastero dopo le spogliazioni dei secoli precedenti, si stabilì che all'abbazia spettasse ogni anno la consegna obbligatoria da parte dei contadini affittuari di cinquanta carri di legname. (l.s.)

LA ZONA OCCIDENTALE DI VERONA NEL MEDIOEVO

Borgo Milano e San Massimo fuori le Mura - In prossimità dell'incrocio stradale dove si oggi si intersecano corso Milano e viale Cristoforo Colombo, a poca distanza dalle attuali via Sicilia e via Andrea Doria che ripercorrono il tratto finale dell' antica via Gallica, fu eretta negli ultimi decenni dell’ VIII secolo una piccola chiesa dedicata a San Massimo, ritenuto da alcuni tra i primi vescovi di Verona.  L'edificio, al cui interno pare fossero riposte le reliquie del santo, fu distrutto da un’incursione degli Ungari e ricostruito intorno all’ anno 981 probabilmente nel luogo dove ora è il cosiddetto Giardino d’Estate. Nel 1162 era considerata filiazione della basilica di San Zeno (“ecclesiam Sancti Massimi cum pertinenciis”). Col tempo si sviluppò intorno alla chiesa un borgo extramurale di cospicue dimensioni (San Massimo fuori le mura), mentre la chiesa ospitò anche, intorno al 1365, una piccola comunità di monache benedettine (“monasterium Sancti Maximi penes muros burgorum civitatis Verone”).

Nella prima età scaligera (1308-1329) fu eretta l'imponente cortina muraria di destra Adige che racchiudeva la porzione urbana sorta all'esterno della primitiva cerchia di epoca romana, in parte già ampliata durante il periodo comunale (XII-XIII secolo). Qui si apriva per l’appunto la porta di San Massimo.

Nell'ottobre del 1387 la lotta per il controllo di quell’ingresso fortificato, durante l’assedio compiuto da Giangaleazzo Visconti signore di Milano in guerra contro Antonio della Scala, si rivelò determinante per la sopravvivenza dei signori di Verona e Vicenza. Grazie alla complicità di alcuni cittadini,  infatti, la porta fu nottetempo spalancata e le truppe milanesi al comando di Guglielmo Bevilacqua e Luchino dal Verme,  entrambi fuoriusciti veronesi al servizio del Visconti, non ebbero difficoltà a irrompere in città  costringendo  alla fuga l’ultimo signore scaligero. Così narra una cronaca:

“… nella mezza notte i congiurati corsero con empito alla porta per pigliare il Capitano di quella; e dopo un fiero contrasto di dentro seguito tra i congiurati e la guardia della porta, e di fuori adoperandosi il Bevilacqua ed il Dazzo, che erano alla ora prescritta venuti con molte genti d'armi, ottennero finalmente la porta.  Il che inteso da Antonio s’armò incontanente, e montato con alcuni pochi a cavallo corse per la città gridando viva la Scala; ma veggendo che alcuno non si moveva ad ajutarlo spaventato nel Castel Vecchio si ritirò, facendo chiudere le porte della seconda muraglia, che separavano la città dal Borgo di San Zeno ... ".

In epoca scaligera e soprattutto durante la prima dominazione veneziana (1405-1517) l’insediamento di San Massimo, seppur rimasto all’esterno della cinta muraria, crebbe di dimensioni e nel 1409 risultava aggregato a fini fiscali al quartiere cittadino della Beveraria (“Beveraria cum Sancto Maximo”), confinante con quello di San Zeno.
Alcuni decenni più tardi, nel 1459, la chiesa, che inizialmente dipendeva dalla vicina parrocchia di San Procolo, fu staccata e resa autonoma, grazie all’intraprendenza dei suoi abitanti che ottennero dal vescovo di Verona la presenza stabile di un sacerdote officiante.
Nel 1518, infine, con l'attuazione del nuovo progetto fortificatorio veneziano, l’intero piccolo centro abitato fu raso al suolo e ricostruito nell’arco di alcuni anni nel luogo ave si trova tuttora.

Stadio e Via Albere - Quasi nulla si conosce di quell’ampia fascia di territorio extraurbano che in età medievale era delimitata dai tracciati delle vie romane, Gallica e Postumia, nel loro iniziale percorso al di fuori delle mura, ed oggi occupata dai moderni quartieri di Borgo Milano e Stadio. Si crede comunque che l’area, destinata a coltivo e a pascolo, accogliesse piccoli insediamenti rurali accanto a luoghi ancora incolti, come sembra confermare la presenza del toponimo Albere, ossia boschi di pioppi, che compare in documenti di inizio Duecento (1215) ed è riferibile ad alcune contrade individuabili lungo l’monima via odierna. (I.s.)


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