mercoledì 8 dicembre 2010

Luigi Bertagna: l'ultimo «ragazzo della Folgore» racconta le battaglie di El Alamein


Il tesserino militare di Luigi Bertagna all'età di vent'anni

STORIA. Il reduce veronese d'Africa era del famoso 5° Battaglione; oltre a lui un altro sopravvissuto risiede in Friuli. Luigi Bertagna, 88 anni: «Si combatteva anche contro mosche, pidocchi e dissenteria»

È un ragazzo di 88 anni: ragazzo, perché Luigi Bertagna - classe 1922 - conserva lo spirito del «folgorino» che combatté eroicamente a El Alamein, tra il luglio e il novembre del 1942.
Dal 1986 - dopo esser stato direttore del parco-giardino Sigurtà, a Valeggio - vive a Verona, ed è uno dei due «leoni della Folgore» (ma preferisce «ragazzi», come li chiamavano pure i tedeschi e gli inglesi) reduci ancora viventi del 5° Battaglione, 15ma Compagnia di quella divisione che - come ricordò Paolo Caccia Dominioni - fu all'epicentro del grande ciclone bellico, e il cui sacrificio è stato alto.
L'altro reduce vivente del 5° Battaglione è Pino di Giusto (vive a Pordenone, e il Comune gli ha conferito recentemente la cittadinanza onoraria); del 9° Battaglione, invece, è vivente soltanto il generale Marcello Berloffa.

Luigi Bertagna - una memoria eccezionale - ricorda commosso quegli anni, mostrandoci nel contempo una straordinaria documentazione che testimonia la vita di un ragazzo senza dubbio avventurosa. Soprattutto dal 1942 al 1945, fra prima linea prigionia e fughe dai campi concentramento.

Orfano di papà a 4 anni, di mamma a 18, studi di agronomia, allo scoppio della guerra si arruola nell'esercito,  frequenta poi la scuola paracadutisti a Tarquinia («sono felice di aver servito nei ranghi della Folgore: ho fatto il mio dovere») e viene selezionato fra coloro che si sarebbero dovuti lanciare su Malta.

La missione era segreta: da Ostuni, i «ragazzi» della Folgore furono mandati a Trieste, da qui in Jugoslavia, quindi in Grecia, infine -nell'agosto '42 - in Africa: dovevano trovare speciali paracadute che, purtroppo, vennero sabotati dagli inglesi. Così, i paracadutisti vennero inseriti nelle truppe speciali a terra; destinazione: il deserto di El Alamein, nel nord dell'Egitto, sul mar Mediterraneo.

El Alamein, 1942: una delle postazioni scavate dai «folgorini» in vista della controffensiva inglese
Carri corazzati, aerei a tuffo, campi minati, buche, combattimenti cruenti, scontri, scaramucce, si alternano nei suoi ricordi in cui rivivono personaggi eroici come Guido Visconti di Modrone che disse «un Visconti non schiva il piombo dei Windsor», il comandante Marescotti Ruspoli e il fratello Costantino Ruspoli che era il più anziano, ultracinquantenne... o il capitano Zingalez, di Roma, che apparve improvvisamente su di un'altura, come una visione mitica, col capo fasciato incitando i folgorini a resistere in quell'inferno.
«Sì, per tentare di salvarci stavamo in effetti capisaldi scavati per 20-30 centimetri nel terreno duro, sassoso», ricorda Bertagna.
«Su questa terra (per quanto si poteva!) dormivamo senza tende; avevamo dei teli, che però si usavano per recuperare la rugiada con cui tentare di dissetarsi il giorno seguente. La sofferenza maggiore era dovuta proprio alla mancanza d'acqua: eravamo disidratati, non ci si poteva lavare, dovevamo “combattere” anche contro mosche, pidocchi, e la dissenteria che imperava».
Come arrivavano i rifornimenti? «Con camion che si fermavano dietro ad un costone, lontano dalla prima linea, dove eravamo; li raggiungevamo la notte, a turni, trasportando poi a mano le marmitte, costruite con bidoni di benzina (i rari minestroni o pastasciutte sapevano di benzina), ma perlopiù si viveva di carne in scatola e gallette. La dose giornaliera di acqua era una borraccia di un litro a testa. Ma eravamo nel deserto...»

Eppure, racconta, «vi era entusiasmo, si combatteva fino allo stremo. Con noi erano arrivati anche paracadutisti tedeschi, fra i quali Max Shmeling, il campione mondiale dei pesi massimi.
Finché non giunse la grande battaglia finale, il 23 ottobre. Ero sempre in prima linea, e fui colpito da una scheggia di bomba alla mano destra». Poi, la prigionia e le fughe. «Ma prima quasi tremila chilometri nel deserto, verso la Tunisia, ogni tanto combattendo.

Fui fatto prigioniero l'11 maggio del '43, a Capo Bon, e portato in Algeria. Con tutto un susseguirsi di fughe dai campi, arresti, cella di isolamento... Dal campo 211 finalmente l'8 marzo del '45 si partì per l'Italia... Napoli, Nola, Barletta all'ospedale all'inglese. E nell'estate del '45, Bologna, il ritorno a casa».

Ad El Alamein vi è un cimitero con tante croci di abete. In mezzo, nessuna epigrafe ma solo un nome: Folgore. Anche se qualcuno vi ha scritto: «Viandante arrestati e riverisci. Dio degli eserciti accogli gli spiriti di questi ragazzi in quell'angolo di cielo che riservi ai martiri e agli eroi».

Fonte: srs di Maria Vittoria Alfonsi da  L’Arena di Verona di Lunedì 06 Dicembre 2010CRONACA, pagina 14




El Alamein:  Qui avvenne una svolta della guerra

 Il cippo di El Alamein
 
Con quelle di Stalingrado sul fronte russo e delle Midway nel Pacifico, la battaglia, o meglio le battaglie, di El Alamein, nel deserto a 100 chilometri da Alessandria d'Egitto, è considerata una delle svolte della Seconda guerra mondiale.
Il suo nome in arabo significa «le due bandiere», ma a combatterla, con alterne sorti, tra il luglio e il 4 novembre del 1942 furono tre eserciti: i soldati italiani e l'Afrika Korps tedesco sotto il comando di Rommel, e le truppe inglesi del generale Montgomery, che in agosto sostituì il generale Auchinleck, dopo le sconfitte subite nell'offensiva dell'Asse. Nella controffensiva britannica che, nell'autunno '42, sfocerà nell'occupazione della Libia, gli ultimi a cedere furono i parà della Folgore.  A El Alamein fallì l'obiettivo di Mussolini e Hitler di occupare l'Egitto, sulla strada del petrolio dell'Iraq.
Disse il leader inglese Churcill: «Fino a El Alamein non avevamo mai vinto, dopo El Alamein non abbiamo più perso».

Fonte: da L’Arena di Verona di Lunedì 06 Dicembre 2010 CRONACA, pagina 14


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