venerdì 25 febbraio 2011

IL BILANCIO NEGATIVO DEL COLONIALISMO ITALIANO IN LIBIA: INTERE POPOLAZIONI FURONO DEPORTATE PER BATTERE I RIBELLI

Arresto di Omar al-Mukhtar

Tripoli, arido suolo 
di dolore e fallimenti
Mai colonizzazione fu più sfortunata di quella italiana in Libia. E pensare che tutto era parso facile nell'ottobre del 1911, quando le truppe italiane inviate dal governo liberale di Giovanni Giolitti erano sbarcate a Tobruk, Derna, Bengasi e si erano avventurate in quella terra senza quasi incontrare resistenza da parte dei duemila mal equipaggiati soldati ottomani lasciati a presidio dalla Turchia. Casomai il nostro esercito ebbe qualche problema da parte dei senussi, gli islamici che, senza entrare in conflitto con Istanbul, dalla metà dell'Ottocento (nel 1843 Muhammad al-Sanusi si era stabilito a sud-ovest di Cirene), avevano dato alle genti della Tripolitania e della Cirenaica nuove forme di organizzazione politico-sociale (oltre a una versione del tradizionale credo religioso maomettano più moderna, più adatta alla mentalità e alle esigenze delle popolazioni beduine). Ma l'impresa italiana ebbe comunque successo e nell'ottobre del 1912 la Sublime Porta (il governo di Istanbul) firmò il trattato di Ouchy (Losanna) in virtù del quale la Turchia ritirava le proprie forze armate dalla Libia, lasciando il Paese all'Italia. Dopodiché la guerriglia della Senussia proseguì e - con l'aiuto di parte dell'esercito turco non rassegnato a rispettare le decisioni di Ouchy - avrebbe potuto crearci seri guai se le ripercussioni in loco della Prima guerra mondiale e un'epidemia di peste (tra il 1916 e il 1917) non ne avessero mortificato le ambizioni.

Così, terminato il grande conflitto, l'avventura della colonizzazione italiana in Libia poté riprendere.
E procedere gradualmente alla conclusione che giustifica il titolo di un libro di Federico Cresti che l'editore Carocci si accinge adesso a dare alle stampe: Non desiderare la terra d'altri. La storiografia ci ha tramandato il racconto di un'Italia liberale che, dalla fine della guerra (1918) alla marcia su Roma (1922), tentò la via di una convivenza pacifica con i senussi e la popolazione locale; sarebbe stata poi l'Italia mussoliniana a riprendere la via delle armi. In parte le cose andarono così. Ma solo in parte. L'esperimento - successivo alla Prima guerra mondiale - di governo indiretto e di «associazione» dei locali, scrive Cresti, mostrò effettivamente «una volontà di conciliazione e di rispetto delle popolazioni della Libia che avrebbe forse potuto evitare, se applicata con continuità, gli eccidi e i disastri successivi». Ma già nel 1922, prima della marcia su Roma, all'epoca del governatorato di Giuseppe Volpi (quando era ministro delle Colonie Giovanni Amendola), da parte italiana, in Libia, si era tornati all'uso delle maniere forti. Sicché si può tranquillamente affermare che la seconda guerra italo-senussa, all'epoca enfaticamente presentata come la riconquista fascista della Cirenaica, era stata impostata prima dell'avvento del fascismo.

Anche se poi la stagione più cruenta del conflitto sarà riconducibile alla responsabilità del maresciallo Pietro Badoglio,
Il quale entrò sulla scena libica alla fine del 1928 affermando che non avrebbe dato tregua a chi non si fosse sottomesso («né a lui né alla sua famiglia né ai suoi armenti né ai suoi eredi») e a quella del generale Rodolfo Graziani, che dal marzo del 1930 diede avvio all'ultima e più dura fase di repressione della resistenza. In questo contesto furono organizzati spostamenti coatti di popolazione mai visti prima di allora. Scriveva Badoglio, poco dopo l'arrivo di Graziani: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben deciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa; non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa; ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo proseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». E Graziani prese l'ordine alla lettera, organizzando lo spostamento dell'intera popolazione della Cirenaica lungo la pianura costiera, tra il mare e le pendici dell'altipiano. Fu una marcia, in inverno, di centinaia e centinaia di chilometri. Si ebbe qualche gesto di pietà nei confronti delle popolazioni nomadi del Gebel? Pressoché nessuno. Badoglio così scrisse a Graziani nel 1932: «Non ricercare il rientro dei fuorusciti. È meglio perderli per sempre... Il Gebel deve essere dominato prevalentemente dal colono italiano... L'indigeno si convinca o, per meglio dire, si abitui a considerare quella (dei campi di concentramento lungo i territori costieri della Cirenaica e della Sirtica) come la sua destinazione permanente». Le direttive di Badoglio sul mantenimento delle popolazioni nei campi di concentramento, a meno che non fossero determinate da una precisa volontà di sterminio, erano insostenibili, osserva Cresti; «se si fossero concretizzate avrebbero portato, con ogni probabilità, alla progressiva distruzione delle popolazioni concentrate». Graziani fu più duttile.

Ma l'esito di quelle politiche fu in ogni caso drammatico.
Impossibile calcolare con esattezza il numero dei morti, che furono numerosissimi. Oltretutto Badoglio ordinò di passare per le armi chiunque, tra i nativi, fosse stato trovato sul Gebel da dove la deportazione aveva avuto inizio. Nel settembre del 1931 Umar al-Muktar, l'anziano capo della resistenza (aveva quasi 70 anni), fu catturato e impiccato. Il 24 gennaio del 1932 Badoglio fu in grado di dichiarare che la ribellione era definitivamente stroncata e la Libia «del tutto pacificata». Secondo i dati ufficiali italiani i morti nelle operazioni contro la guerriglia erano stati, tra il 1923 e il 1932, 6.500. Ma già gli studiosi Giorgio Rochat e Angelo Del Boca, che negli anni passati hanno approfondito la questione, hanno calcolato che furono invece diverse decine di migliaia. Forse centomila. Molti, certo, anche se infinitamente meno di quelli indicati da esponenti politici libici contemporanei quali Salah Buissir (un milione e mezzo) o Gheddafi (750 mila) che corrisponderebbero nel primo caso al doppio, nel secondo alla quasi totalità della popolazione locale presente all'epoca del censimento ottomano del 1911. Ali Abdellatif Ahmida, uno studioso di origine libica che attualmente insegna negli Stati Uniti, stima che mezzo milione di suoi connazionali morì in battaglia o di malattia, fame e sete; altri 250 mila furono costretti all'esilio in Egitto, Ciad, Tunisia, Turchia, Palestina, Siria e Algeria. Un altro storico libico, Yusuf Salim al-Bargathi, sostiene che i morti per la deportazione furono tra i 50 e i 70 mila (laddove Rochat e Del Boca calcolano che furono circa 40 mila).

Il 13 agosto del 1932, su proposta del ministro per le Colonie Emilio De Bono, Luigi Razza viene nominato presidente dell'Ente per la colonizzazione della Cirenaica.
Razza, già giornalista nel mussoliniano «Popolo d'Italia», sansepolcrista, ex segretario dei fasci d'azione, futuro ministro dei Lavori pubblici, vara un ambizioso piano per far giungere sul luogo italiani disposti al lavoro duro. Gente, in genere, con la fedina penale non immacolata. Non importa se pregiudicati a seguito di condanne politiche o per delitti comuni. Circostanza che costringerà in seguito Italo Balbo a «depurare», tra il 1938 e il 1939, quella corrente di immigrazione. Ma nella prima metà degli anni Trenta non si va per il sottile. Nel 1934 arriva in Cirenaica anche Amerigo Dumini, già condannato (anche se con una pena risibile: sei anni di cui quattro condonati) per l'uccisione, nel giugno del '24, di Giacomo Matteotti.  Dumini, riarrestato in Italia per traffico d'armi, aveva cominciato a ricattare Mussolini e, su pressione del ministro dell'Interno Arturo Bocchini, era stato «accolto» in Libia. Arrivato lì, cominciò subito a lamentarsi dei terreni che gli erano stati assegnati e della riduzione dei finanziamenti che gli erano stati promessi. Poco dopo essere giunto in Libia, riprese a scrivere a Mussolini lettere sottilmente ricattatorie, i soldi arrivarono e nel giro di tre anni divenne un ricco possidente. Nel 1939 i terreni della sua azienda furono acquisiti dal governo della colonia e Dumini ne uscì con un lauto indennizzo. Restò in Libia dove, quando arrivarono gli inglesi, grazie alla sua padronanza della lingua (era nato negli Stati Uniti), per un breve periodo fece anche da interprete. Insomma se la passò più che bene. Ma per tutti gli altri che non avevano armi di ricatto nei confronti del Duce, fossero o meno pregiudicati, le cose andarono assai diversamente.

Pieno di difficoltà è già l'adattamento dei nuovi arrivati.
Si registrano casi «di eccitamento delle varie funzioni organiche seguito da lieve stato depressivo... specialmente nel sesso femminile»; «qualche caso importante di malattia cronica... qualche caso di forme oculari contagiose croniche e qualche caso di tricofizia e di tigna, tutti però cronici e cioè non avvenuti per contagio con elemento indigeno»; frequenti disturbi artritici, malattie cardiache, lue; tra i bambini, linfatismo, scrofolosi, altre patologie cutanee, qualche sporadico caso di tubercolosi. A detta di Armando Maugini, che dirigeva l'Ufficio per i servizi agrari della Cirenaica, i pugliesi erano quanto di meglio l'Italia potesse offrire alla Libia per la loro capacità di affrontare la durezza delle condizioni di vita di quella fase pioneristica. «Il colono pugliese» scriveva Maugini in un rapporto «è molto indicato per tale tipo di colonizzazione, non solo per lo spirito di adattamento e per la notevole sobrietà, ma anche perché, essendo molto attaccato ai parenti, ed essendo proveniente da territori aventi requisiti agrologici molto simili a quelli del Gebel Cirenaico, esercita un'influenza di attrazione verso gli elementi rimasti nella Madrepatria, i quali pertanto potrebbero un giorno intensificare spontaneamente l'opera di popolamento delle zone già occupate dai pugliesi». Luigi Razza conferma: «La scelta delle famiglie è stata effettuata in un primo tempo nelle Puglie, e più largamente nel barese, perché il primo nucleo di sei famiglie di Corato trasferite al completo in colonia all'inizio delle attività, a titolo di esperimento, dettero ottimo risultato, e si ebbe quindi un primo punto di appoggio che avrebbe potuto funzionare come assimilatore qualora fossero stati messi a suo contatto elementi della stessa provenienza... I coloni sono già ambientati tutti benissimo e si sono attaccati alla loro terra, della quale hanno già potuto accertare le buone attitudini alla valorizzazione». In subordine vengono apprezzati abruzzesi e calabresi.

Le condizioni per avviare in colonia una nuova attività erano terribili.
Agli inizi del 1935 una comunità di trenta pescatori fu trasferita a Zuetina. Ma già ai primi di giugno molti di loro chiedevano di tornare in Italia. L'isolamento e lo stato di abbandono della ridotta rendevano la vita assai difficile: un mobilio ridotto all'indispensabile, il pane che arrivava saltuariamente da Agedabia dove il piccolo forno funzionava poco e male per la mancanza di fornaio, farina e combustibile. Le imbarcazioni erano poche e si erano rovinate durante il tragitto dall'Italia. La calura lungo la costa sirtica, riferisce Cresti, era tale che già alla fine della giornata di lavoro una parte del pesce, ridotto in pessime condizioni, doveva essere buttata via. A terra le attrezzature di refrigerazione erano scadenti: uno dei locali della ridotta era stato trasformato in cella frigorifera, ma il ghiaccio disponibile era insufficiente. Ancor più difficile, prosegue Cresti, «si era dimostrata la vendita del pesce; la vettura disponibile non era attrezzata per il trasporto e si era dunque fatto ricorso ad un commerciante privato». Ma l'impresa si era rivelata poco remunerativa e il contratto era stato presto stracciato. In più i pescatori ebbero a lamentarsi dell'eccessiva fiscalità delle autorità locali dal momento che, una volta giunto a Bengasi e sottoposto al controllo dell'ufficio d'igiene, spesso il pesce era stato giudicato avariato e buttato via prima che potesse arrivare al mercato. Nel mese di settembre a Zuetina non rimanevano che quattro persone, anch'esse desiderose di rimpatriare al più presto. Nel tentativo di rilanciare l'esperimento furono presi contatti con una cooperativa di Trapani. Ma, a fine stagione, anche gli ultimi rimasti furono rimpatriati.

Il 1936 fu poi, in Tripolitania, causa la siccità, un anno pessimo per i raccolti.
Si giudicò da quel momento un errore l'aver mandato in Libia famiglie numerose: la presenza di bambini e vecchi si era rivelata un peso morto per la bonifica. E si cambiò registro. Il 1938 fu l'anno dell'operazione cosiddetta dei «ventimila». Tanti dovevano essere, secondo Italo Balbo, i «non emigranti» da trapiantare in Libia. Perché «non emigranti»? Il fascismo aveva sempre fatto una politica antiemigratoria e non poteva smentirsi. Il trasferimento in Libia dei ventimila, racconta Cresti, «venne così presentato dai giornali italiani come l'esatto contrario di tutto ciò che era stata l'emigrazione sofferta fino ad allora da quanti partivano alla ricerca di condizioni di vita che l'Italia non poteva offrire: non più un evento triste, ma un'avventura eccitante - dove l'inatteso era fonte di curiosità e non di angoscia (ovvero dove l'inatteso, come fonte di angoscia, era eliminato) - piena di sorprese positive, allegra; non più separazione, unicamente, dal proprio ambiente di vita e dalla società in cui coloro che partivano erano vissuti fino ad allora, ma la possibilità di realizzare nuovi legami forti, di gruppo, con coloro che partecipavano allo stesso evento; non più continuazione della miseria nelle condizioni del viaggio, ma partecipazione al lusso della modernità; non più la prospettiva della penuria, ma quella dell'abbondanza; non più la fredda, sospettosa accoglienza riservata a stranieri alla frontiera, ma la manifestazione del calore di un'accoglienza fraterna in una terra che si affermava non essere più "Oltremare" ma parte costituente della madrepatria».

La partenza fu organizzata da Venezia il 28 ottobre, nell'anniversario della marcia su Roma.
Grande fu la risonanza su tutti i giornali. Mussolini gradì fino a un certo punto l'enfasi che Balbo diede all'operazione. E, quando mancava meno di un anno all'inizio della Seconda guerra mondiale, cominciò a dare segni di insofferenza nei confronti dello stesso Balbo. L'Italia entrò in guerra solo nel giugno del 1940, ma l'andamento sfavorevole della stagione agricola aveva provocato notevoli difficoltà già alla fine del 1939. All'inizio del '40 si dovettero organizzare nuove spedizioni, in particolare di foraggio e di mangime per gli animali. Furono comprati più di mille buoi maremmani, ma molte bestie si ammalarono prima ancora di partire e dovettero sostare a lungo a Civitavecchia, con nuove spese per il foraggio che diventava sempre più caro. Il bestiame patì, nell'inverno del '40, di denutrizione a cui seguirono perdite di capi per mancanza di foraggio. Con il passare dei mesi, poi, era divenuto sempre più difficile trovare spazio per il trasporto delle merci. Nei mesi di aprile e maggio 1940 quasi tutte le navi erano state requisite per i servizi militari: in alcuni casi i beni e i materiali già imbarcati per la Libia erano stati scaricati a Siracusa e a Catania per liberare le navi. Un piroscafo carico di materiali agricoli partito da Genova nel mese di ottobre, a metà dicembre era ancora bloccato a Palermo in attesa di compiere la traversata. «In queste condizioni» nota l'autore «era sconsigliabile l'invio di merci deperibili, come le sementi o le talee di viti». Per cui, a ridurre le perdite, fu deciso di rivendere in Italia i materiali già acquistati per essere inviati in Libia. Una catastrofe.

L'Italia entra in guerra nel giugno del 1940 e il 28 di quello stesso mese cade, nel cielo di Tobruk, l'aereo su cui è imbarcato Italo Balbo (la morte desta qualche sospetto di un ancora non provato coinvolgimento di Mussolini).
Prende il suo posto Rodolfo Graziani, che è subito impegnato dal Duce in un'offensiva contro l'Egitto. Segue, nei mesi di febbraio e marzo del 1941, la prima occupazione inglese che, scrive Cresti, «dette una violentissima scossa all'edificio ancora malfermo della colonizzazione in Cirenaica». Praticamente non c'è pace per la Libia che, quando dovrebbe raccogliere i primi frutti dell'opera dei «ventimila», si ritrova ad essere teatro di guerra. I coloni vengono presi dal panico e si accalcano all'istituto di credito per ritirare i risparmi, cercando di fuggire verso Tripoli e di rientrare in Italia. Man mano che avanzano le truppe alleate, gli arabi in loco - spalleggiati da un corpo senusso che combatte a fianco degli inglesi - saccheggiano ogni volta che gliene è offerta la possibilità. Si distinguono per assenza di scrupoli gli australiani. Scrive nel suo diario l'agronomo Paolo Sabbetta: «Militari australiani entrano, di giorno e di notte, nelle case coloniche chiedendo generi diversi pagandoli, alcuni, profumatamente, altri invece, quasi sempre ubriachi, saccheggiando e violentando le donne mentre tengono gli uomini a bada con le armi in pugno». E le testimonianze di queste violenze sono numerose. Dall'Italia il regime cerca di minimizzare e di promuovere l'immagine di una popolazione libica della Cirenaica solidale con i coloni. Ma tra il dicembre del 1941 e il gennaio del 1942 per gli italiani è l'inizio della disfatta. Ancora un anno terribile e il 23 gennaio del '43 le truppe britanniche fanno il loro ingresso a Tripoli. Tra Libia e Italia è interrotto ogni contatto. Qualche migliaio di italiani resta lì a lavorare fino alla fine della guerra e oltre. Anche dopo che nel '49 l'assemblea generale delle Nazioni Unite vota per il progetto di una Libia come Stato a sé e dopo la proclamazione, nel '51, dell'indipendenza. Va aggiunto che nel dopoguerra, venuta meno l'autorità italiana sulla regione, si registrano sanguinose manifestazioni arabe ostili alla comunità ebraica che era stata fin lì una colonna della presenza italiana, al punto che Balbo nel '38 aveva ottenuto una sorta di esenzione della Libia dalle leggi razziali.

I pogrom più sanguinosi saranno quelli del novembre 1945
(particolarmente raccapriccianti perché compiuti proprio nei giorni in cui, con l'uscita dei superstiti ebrei dai campi di concentramento d'Europa, il mondo veniva a conoscenza delle atrocità compiute nei lager nazisti) e del giugno del 1948, all'indomani della nascita dello Stato di Israele. Poi si ripeteranno nel 1967 all'epoca della guerra dei sei giorni. Nel 1956 un accordo tra Italia e Libia regola la presenza nella ex colonia dei nostri connazionali che si trasformano, la maggior parte, in piccoli possidenti. Ma saranno tutti cacciati dopo il colpo di Stato degli ufficiali liberi guidati da Gheddafi, che nel 1969 rovescerà la monarchia senussa. Nel frattempo la Libia, che ancora non conosceva la sua fortuna petrolifera, era tornata ad essere uno dei Paesi più poveri del mondo. I pastori-contadini della Cirenaica, una volta tornati sulle loro antiche terre, non potendo più avvalersi dei capitali, delle attrezzature e degli impianti italiani, avevano rapidamente ricondotto il Paese nel solco della tradizione. La Gran Bretagna, nel lungo periodo dell'amministrazione militare (1942-1951), aveva rifiutato di investire i propri soldi nella nostra ex colonia. E quando nel 1970 partirono gli ultimi italiani, il bilancio dei quasi sessant'anni di loro presenza in quella terra poteva vantare pochi punti al proprio attivo. Neanche quelli che hanno contrassegnato le esperienze coloniali negli altri Paesi del Terzo Mondo. Come se una punizione particolare si fosse abbattuta su chi aveva contravvenuto al comandamento inventato da Federico Cresti per il titolo del suo libro: Non desiderare la terra d'altri, appunto.


Fonte: srs di Paolo Mieli da  IL  CORRIERE DELLA SERA  di martedì 22 febbraio 2011



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