venerdì 10 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIOEVALE. (Cap. II.A): FORMAZIONE DELLA CHIESA OCCIDENTALE

Barletta. Statua colossale di Eraclio I

Il medioevo orientale

Giustiniano aveva tentato per l'ultima volta l'unità politica sulla base di quelli che erano stati i quadri della struttura romana, ma il concilio di Calcedonia (451) aveva oramai aperto al frazionamento religioso: le popolazioni più orientali, della Siria, dell'Egitto e quelle della regione caldaica, professavano il monofisismo, non comprendendo più la cristologia calcedonese e chiamavano gli occidentali Melechiti, soggetti all'Imperatore. L'idea monofisita poi assumerà i connotati del monotelismo, prolungando così sotto altre forme la medesima divisione politicodottrinale.

L'invasione persiana che determinò la caduta di Gerusalemme e la sottrazione della reliquia della S. Croce determinò, anche se indirettamente, una qualche unità politico-religiosa. La guerra contro i persiani aveva assunto le dimensioni della crociata, coinvolgendo anche la popolazione cristiana in una impennata di furore contro il sacrilegio commesso. Recuperata la reliquia della S. Croce dall’imperatore Eraclio I (1), si cadde sotto l'invasione araba respinta per il momento da Costantino IV. Ma di nuovo la questione religiosa ebbe buon gioco a livello politico.
Etione e Abulfala, scrittori monofisiti, iniziarono a propagare un’ideologia contraria ai Bizantini, mostrando come l'arrivo degli Arabi sarebbe stato una liberazione dai Romani e dai Melchiti. In conclusione, nel VII secolo l'Impero di Bisanzio si trovava privo dei territori orientali, Palestina, Siria ed Egitto e con loro aveva perduto anche i relativi patriarcati. L'unica nota positiva era forse quella di una possibilità di riallacciare rapporti più saldi con l'Occidente, cosa che si fece con il Trullano I, terzo concilio di Costantinopoli (680-681), con cui si condannò il Monotelismo.

Questa prima intesa con l'Occidente insieme ad altri due accordi di fissazione dei confini con gli Arabi, e in Italia con i Longobardi, determinarono una fase storica di assestamento che segna l'inizio del Medioevo per dell'Impero d'Oriente.  La discesa degli Avari e degli Slavi nei Balcani, furono però i presupposti per una ulteriore frattura. Finisce l'unità linguistica, il latino,  si interrompono i passaggi di consuetudini tra Oriente ed Occidente, si forma così una nova barriera culturale.

Da Giustiniano in poi abbiamo dunque una serie di rotture, interrotte da spazzi di ritrovata unità. Di fatto però il processo di disintegrazione dell'unità romana sembra essere ormai inarrestabile.

In Italia i domini bizantini erano gestiti dalla sede di Ravenna e i quadri di governo erano costituiti soprattutto da elementi provenienti dalla struttura militare.  A causa del fiscalismo, della carenza amministrativa e la deficienza della difesa nei confronti dei Longobardi,  la popolazione e la classe nobiliare di matrice italica si rivolgeva sempre più frequentemente al Papa, che da Giustiniano in poi aveva assunto una funzione civile: controllava un apparato amministrativo retto da Duchi e si serviva sempre più spesso di una propria milizia. Questa situazione politico militare gettò le basi per lo sviluppo del potere temporale del papato.
 Immunità fiscale e amministrativa dei territori di cui la chiesa di Roma era venuta in possesso facilitarono ulteriormente questo processo, di cui una delle tappe fondamentali fu il passaggio della conferma papale dall'imperatore di Costantinopoli all'Esarca di Ravenna (Costantino IV, an. 685).

Gli accresciuti compiti civili del vescovo di Roma portarono ad un aumento del personale di curia, che in genere era reclutato dalla nobiltà italiana, ulteriore elemento di distinzione da Bisanzio. Per tutti questi fattori si andava strutturando nell'Occidente romano una sorta di polo alternativo a Bisanzio,  strutturato intorno alla fusione tra interessi della nobiltà locale (romana) e crescente ruolo civile dei papi.

Il Concilio Quinisesto, o Trullano II, nelle intenzioni doveva essere uno strumento di regolarizzazione della disciplina ecclesiastica sconvolta dai sommovimenti degli ultimi anni: invasioni arabe, difficoltà con l'Occidente, calata degli Avari e itineranze degli Slavi; di fatto riuscì solo a portare a galla tutte quelle differenze tra Occidente e Oriente, che si erano accumulate dal fine dell’unità effettiva della cristianità costantiniana.  
Quinisesto che appunto significa sintesi del quinto, Trullano I, e del sesto, Trullano II, e quindi tentativo di ricapitolazione del già fatto (si ricordi che il Trullano I, condannando il monotelismo, aveva tentato una via di maggior unione con l'Occidente, lasciando l'Oriente a se stesso); ciò comportò invece l'avvio di un nuovo processo: la perdita della dimensione ecumenica di Costantinopoli, che si fissa su consuetudini locali, diventando intollerante con il resto, e l'inizio di un processo di agglutinamento dell'Occidente, che comincia con rivendicazioni di autonomia della nobiltà italiana dai Bizantini, passa per lo sviluppo di una coscienza temporale dei papi e termina con la costituzione di quell’asse papato-franchi che sarà il connotato più evidente dell'unità europea occidentale.

Concretamente il Trullano II (692) concede di sposarsi anche ai preti e conferma una prassi orientale sul celibato;  sottolinea inoltre il canone 28 di Calcedonia sui diritti di Costantinopoli come secondo patriarcato dopo Roma e contesta il primato romano.  Gli apocrisari papali presenti all'assise non si rendono conto della gravità di queste affermazioni, ma il papa a Roma sì.  Nel frattempo Giustiniano II, promotore del concilio, viene deposto e gli Arabi mettono fine alla chiesa d'Africa.  Le reazioni di Roma vengono contrastate con le armi da parte degli Esarchi di Ravenna, ma gli esiti saranno sempre gli stessi: sollevazioni e rivolte della popolazione romana,  ormai legata al pontefice e interventi dei pontefici che cercano dopo tutto di non porsi in contrasto dichiarato con Bisanzio. Spesso fu proprio per intervento dei papi che gli Esarchi ebbero salva la vita.

Le cose si appianarono parzialmente con il ritorno al trono di Giustiniano II, che invitò il papa Costantino I (708-715) a Bisanzio per discutere e trovare un accordo sui canoni del Trullano. Alla fine l'Occidente né accetto ben 50 e vide riconfermati tutti i privilegi che la Chiesa di Roma godeva come realtà particolare nel tessuto imperiale. Questo però fu l'ultimo viaggio compiuto dal papa a Costantinopoli.

Quasi ponte tra l'antico monotelismo-monofisismo e quello che da lì a qualche anno sarebbe stata l'inclinazione eterodossa del movimento iconoclasta - un rigurgito monofisita, secondo il Damasceno -,  può essere considerata la professione di monofisismo manifestata dall'Imperatore Bardanes.  La netta sconfessione di questo tentativo di riportare alla luce l'antica eresia, da parte del suo successore, mise fine definitivamente alle controversie cristologiche dell'età antica, che per tre secoli avevano tenuto banco, specie in Oriente.

Papato e Franchi

Un nuovo capitolo si apre con l'avvento al potere di Leone III Isaurico († 734). Rapporti tra Longobardi e Bizantini, avvio definitivo dell'alleanza Franchi-Chiesa di Roma, sono le tematiche salienti.

Leone III Isaurico ebbe il merito politico-militare di respingere gli Arabi, nel 717, determinando così tre secoli di allontanamento della minaccia islamica dal Bosforo. Conseguente a questo è la risalita dell'Islam attraverso la Spagna, che determinò la fine del regno visigotico, e il loro blocco da parte dei Franchi a Poitiers, nel 732, che mette in evidenza la forza di quella potenza europea, che sola, in occidente, parallelamente all'Oriente, poteva far fronte al mondo islamico.

Oltre alle iniziative militari, Leone III emanò anche dei provvedimenti amministrativi. Le guerre avevano rovinato i quadri addetti alla raccolta delle tasse e lo stato aveva bisogno di riconquistare il terreno perduto. Questa compagna di fiscalizzazione venne a cozzare con la situazione di privilegio della chiesa Romana, avviando così il contrasto sul terreno politico, al quale poi si aggiungerà quello a livello dottrinale (iconoclastia).

Gregorio II, papa, era di origine romana, primo dopo una serie di 7 greci (fino a Costantino I). Era stato a Costantinopoli come segretario di Costantino I e dunque conosceva bene la situazione politica e culturale dell'Oriente e non è escluso avesse anche una notevole conoscenza della lingua.

Le ripetute reazioni alle misure fiscali imposte da Leone III seguono in tutto i canoni delle precedenti rivolte romane contro Bisanzio, con l'unica differenza che ora l'Esarca (Paolo di Ravenna), si trova davanti i duchi di Spoleto e Tuscia longobarda e non più solamente l'improvvisata milizia popolare della città.  La politica papale, non smentendo la tradizione, cerca una mediazione tra il Cesaro-papismo orientale, impersonato dagli esarchi, e la forza militare dei Longobardi, alla quale non si vuole totalmente assoggettare.  Nel frattempo però comincia la campagna iconoclasta.

Solo pochi accenni ad una tematica che sarebbe lungo illustrare in modo accettabile. Uno dei primi elementi di avversione all'iconodulia si trova nel divieto biblico a farsi delle immagini (Es 20, 4-5). Più che questo principio teorico, sembrò essere il rischio concreto di riflussi nel paganesimo a ingenerare sospetti sulla pratica popolare del culto delle immagini.

Nel VI secolo, di fronte alla nascita dei primi sospetti, verso questo tipo di devozione, si comincia a teorizzare intorno ai concetti di «adorazione e venerazione, forma e materia» dell'immagine. Noi esprimiamo solamente l'attaccamento e l'amore della nostra anima verso i lineamenti dell’immagine - affermano gli iconoduli,  rivolgendosi a coloro che li accusavano di idolatria - , e quando succede che ne siano cancellati i tratti, spezziamo ciò che fu l'immagine come un qualunque pezzo di legno (G. DRAGON, Il culto delle immagini, in J DELUMEAU, Storia vissuta del popolo cristiano, 160).

Nel 726, allo scoppio della lotta iconoclasta si intensificarono le ostilità tra le due correnti, convissute pacificamente fino a quel momento. Le conseguenze a livello artistico furono un irrigidimento dei canoni da parte della committenza ecclesiastica. L'artista non avrebbe dovuto avere alcuna autonomia, perché l'immagine doveva essere il riflesso immediato del soggetto rappresentato. Da qui gli episodi in cui, in modo straordinario, il santo appare all'artista, o in maniera ancor più prodigiosa, l'immagine stessa si auto imprime nella tela, com’è nel caso del volto santo di Edessa: l'icona assurge così al ruolo di reliquia.

Leone III era partitario dell'iconoclastia, per motivi che è ancora difficile stabilire, nel 726 fece distruggere l'immagine del Cristo nel portale di Calcide, opponendosi al patriarca Germano, sostenitore degli iconoduli, nonostante quest'ultimo avesse dalla sua parte il papa Gregorio II. In Italia, il siro Gregorio III convocò un sinodo a Roma nel 731, in cui venne condannata l'iconoclastia. Fu questo sinodo a provocare la confisca dei beni papali dell'Italia meridionale, di cui si vedrà meglio in seguito, o fu invece, come pensano Grumel e Ostrogosky, l'alleanza con i Franchi, considerata dagli orientalisti come un “voltafaccia” del papato?
Difficile dire se l'azione imperiale fosse partita con un decreto o se fosse solo un ordine transitorio.

Leone III scrive a Roma riguardo al suo proposito e Gregorio risponde con due lettere (di cui però si mette in dubbio l'autenticità). L'Arnaldi crede siano dei falsi, costruiti a Bisanzio per far vedere la posizione romana rispetto all'Oriente. Di fatto, tre elementi, piuttosto importanti, sembrano confermarne l'autenticità: la ripresa della dottrina gelasiana sui poteri, imperiale e papale; l'appello alla devozione a S. Pietro, diffusa in Occidente specie grazie alle missioni di Bonifacio - che il papa dice di voler raggiungere al centro dell'Europa; la coscienza dell'esistenza di due blocchi, Oriente ed Occidente, per la prima volta espressa in modo così chiaro.

Nel quadro di questa ribellione di Roma-Bisanzio l'esarca comprende che l'unica carta da giocare è quella longobarda e conclude un’alleanza con Liutprando contro Roma.
Ai Longobardi viene affidato il compito assoggettare i duchi di Spoleto e della Tuscia, all'Esarca quello di piegare Roma. La marcia dei Longobardi però fu di una tale rapidità che essi arrivarono sotto le mura pontificie prima dei Bizantini. L'abilità diplomatica di Gregorio II fece il resto, conquistando i Longobardi alla propria causa. Alla morte di Gregorio II, il successore, Gregorio III chiese per l'ultima volta la conferma dell'elezione all'Esarca che, dopo ha soppressione di Paolo da Ravenna, era l’eunuco Eutichio.

Pur essendo palese la graduale perdita di controllo di Bisanzio sull'Italia, rimane però chiaro, che Roma non aveva ancora assicurata una certa tranquillità politica e manteneva una posizione di difficile equilibrio, in bilico tra Longobardi e Bizantini.

Revisione dei confini patriarcali

Da una lettera di Adriano I (772-795) che chiede la restituzione al patriarcato romano dei territori dell'Italia meridionale e dell'Illirico, si deduce che a suo tempo Leone III doveva aver dato una nuova strutturazione ai patriarcati (il Liber Pontificalis non fa cenno di questi fatti). Osservando che la vecchia strutturazione del potere in Occidente, messa in atto dai tempi di Giustiniano, non assicurava il controllo dei territori, Leone III decise di dividere la superficie nazionale in tre zone, affidando ciascuna di esse alla responsabilità di un duca: Ravenna e la Pentapoli, Sicilia con l'Italia Meridionale, Roma con la Tuscia Romana e la Campania.

Il duca di Roma aveva il titolo di Patricius romanorum. Dal punto di vista ecclesiastico vennero staccati dal patriarcato romano, l'Illirico, la Grecia e l'Italia meridionale. È di questo tempo, e non dell'epoca di Fozio, l'appellativo di “patriarca ecumenico”, che i vescovi di Costantinopoli si attribuiscono in virtù del canone 28 di Calcedonia e che nella gerarchia ecclesiastica li colloca secondi soltanto a Roma. La coscienza dell'importanza della Sede costantinopolitana cresce in questo periodo anche per il fatto che gli altri patriarcati erano stati ingoiati dall'avanzata araba.

Gli stessi Arabi che, attraversata l'Africa settentrionale approdarono alla costa della penisola ispanica e che sfruttando i dissidi interni del regno visigotico (il tradimento dei figli di Vitizza, in lotta per la successione al governo) conquistarono l’intera Spagna, sconfiggendo l’ultimo sovrano visigoto, re Rodrigo, nella battaglia di Guadalete, a Jarz della Frontera; nel 718 varcarono i Pirenei e vennero fermati a Poitiers nel 732 da Carlo Martello. Al Nord della Spagna resisterà solo il piccolo regno delle Asturie, primo inizio della reconquista durata 7 secoli.

La Chiesa romana all'inizio del medioevo risultava dunque una realtà posta ai margini dell'Impero, lontana dagli interessi e dalle cure di Bisanzio. Costantinopoli faceva contemporaneamente aperta professione di incapacità a reggere l'Occidente, ad assicurare quell'unicità dell'impero che Roma si prenderà la premura di smentire con l'ideologia della translatio imperii.

Longobardi e Chiesa romana

Fino all'VIII secolo la Chiesa romana, appoggiata all'autorità temporale di Bisanzio, svolgeva un ruolo prevalentemente pastorale/spirituale. Ma la continua latitanza dell'Imperatore, le mire delle popolazioni longobarde, che inseguivano il sogno di una unificazione dei territori italiani sotto il loro controllo, le popolazioni Italiane che, non integrate con i Longobardi, facevano riferimento sempre più al papato, anche come referente politico, spinsero la Chiesa di Roma verso la ricerca di una nuova base temporale che le assicurasse nel contempo una propria autonomia politica.

Dopo l'alleanza tentata con i Bizantini, la donazione del castello di Sutri al Papa, ad opera di Liutprando, segnava la rottura definitiva con l'Oriente.

Liutprado  si sentiva ormai libero di attaccare Ravenna(2), trovando davanti a sé solo il papa, Gregorio III, che tentava di contrastarlo, prima chiedendo l'intervento del patriarca di Grado con navi veneziane e poi stringendo alleanze con i duchi di Benevento e Spoleto. Alla fine Gregorio III si vedeva costretto a chiedere l'intervento di Carlo Martello che, avendo ottenuto la vittoria di Poitiers sugli Arabi – un punto forte della sua politica interna – anche con il concorso dei Longobardi, non poteva accettare. Al papato non restava che tentare una politica di fine diplomazia con il nemico, per cercare di stornare momentaneamente i suoi progetti di aggressione. Il protagonista delle trattative di pace sarebbe stato il papa Zaccaria, successore di Gregorio.

Ottenendo una tregua di vent'anni con i Longobardi egli convinse Liuptrando a desistere dai progetti di unificazione; con gli stessi propositi si presentò a lui al tempo della guerra con Ravenna, ottenendo che fosse levato l'assedio alla città. La politica papale ottenne questi successi forse anche a causa della devozione alle reliquie di Pietro, abbondantemente diffusa tra i Germani (Haller). Si può vedere a questo proposito le trattative tra Gregorio III e Carlo Martello, quando il Papa inviò al sovrano franco le chiavi di S. Pietro e una reliquia delle sue catene, per appoggiare la sua richiesta di aiuto, affermando che la negazione del soccorso al "Pietro in terra" avrebbe potuto un giorno fargli trovare chiuse le porte del regno eterno, le cui chiavi appartengono al "Pietro del cielo". Ad Astolfo, successore di Liutprando e nuovo propugnatore della politica di unificazione nazionale, si opporrà Stefano II, il fautore dell'alleanza con i Franchi.

Stefano II e Pipino

Con la Morte di Dagoberto I († 639), la stirpe dei Merovingi si avvia verso una veloce decadenza. A governare il regno franco erano praticamente due casate di maggiordomi, gli Arnulfingi nell'Austrasia e i Pipinidi nella Neustria.

Con Pipino di Heristal († 714) si giunge all'unificazione dei territori. Dopo di lui sarà un suo figlio illegittimo ad assumere il maggiordomato, Carlo Martello († 741), così nominato per la lotta sostenuta contro i nobili, che gli contendevano il diritto al governo. Con i figli di quest'ultimo, Pipino il Breve († 768) e Carlomanno, si ebbe ancora una temporanea divisone dei poteri, ma presto Carlomanno si fece monaco e Pipino si preparò alla deposizione di Childerico III, ottenuta appunto grazie alla iussio papae e all'unzione sacrale, che gli consentivano di legittimare la sua presa di potere, a danno della dinastia regale che godeva dello ius stirpis.

L'appoggio papale fu ottenuto grazie ad una ambasceria di Burcardo di Wüzburg e Fulrado, abate di St. Denis, che vennero a Roma, da papa Zaccaria, a chiedere se avesse dovuto governare colui che possedeva il titolo o colui che aveva il potere. «Melius esset illum regem vocari qui potestatem habere, quam illum qui sine potestate manebat, ne conturbaretur ordo», rispondeva Zaccaria, secondo la Chronica Fredegarii. Concludeva poi l'ingiunzione papale: «per auctoritatem apostolicam iussit Pipinum regem fieri». Nel 751 (752) nella grande assemblea di Soissons, Pipino si fece eleggere re e i vescovi lo confermarono tale, ungendolo insieme a tutta la sua famiglia. Il  potere sacrale, che veniva un tempo ai sovrani dal sangue, passava ora per il gesto ecclesiale dell'unzione.

La “iussio papae”, di cui fa cenno il cronista franco, affianca il diritto germanico, che si avvaleva della sola elezione, per conferire la dignità regale. In seguito, la curia pontificia svilupperà questo elemento come diritto del sacerdotium sul regnum, tanto che con Ludovico II diventerà un elemento dominante, sopprimendo quasi del tutto la pratica dell'elezione.

L'ingiunzione papale era volta a confermare l'idoneità del candidato, cioè le sue qualità morali e religiose e la sua abilità al governo - Innocenzo III impugnerà quest'ultima contro Federico II, designato re a soli due anni -.

La curia papale osava ribaltare lo ius stirpis a favore dello ius idoneitatis, fondandosi sul diritto romano, specie giustinianeo, sulla prassi della corte di Bisanzio e sulla patristica, che vedeva il senso del potere statale nel mantenimento dell'ordine pubblico.
Non il diritto di sangue ma il diritto alla pace diventava l'elemento sovrano, al quale doveva sottoporsi anche colui che governava. Si tratterrebbe, in ultima analisi, della nascita dello stato di diritto, a cui anche il sovrano deve sottoporsi.

Ne conturbaretur ordo” affermava il papa, perché non sia sconvolto l'ordine naturale-divino, su cui si fonda la teocrazia papale, in cui il sovrano è Dei gratia rex.

L'unzione confermava questa teocrazia, portando il sovrano nella sfera divina.
La miniatura di un codice ottoniano di Aquisgrana, raffigura Ottone III come sospeso tra cielo e terra, mediator inter clerum et populum, particeps ministerii sacerdotalis, in cui proprio le parti unte, le spalle e la testa, diventano elementi appartenenti alla sfera divina - un libro dei vangeli, aperto, serve da liea di demarcazione tra lo spazio naturale e quello soprannaturale. Si consideri che al tempo la dottrina dei sacramenti non era ancora sviluppata - sarà la scolastica a farlo - e che l'unzione regale era considerata alla stessa stregua dell'ordinazione episcopale.

Il rito di Soisson, per la commistione tra parte civile e autorità religiosa, diventa il fondamento sia della teocrazia - diritto del re sul sacro - sia della ierocrazia - interferenza del papa in materia civile: dualità base dell'ambigua unità del regime della cristianità medievale. A livello simbolico, l'olio non era un elemento conosciuto dai rituali germanici per la consacrazione dei re. Era stato usato dai re visigoti e anglosassoni, specie nei periodi di crisi del potere al vertice delle istituzioni. A Pipino, politicamente forte, non serviva a questo scopo, ma piuttosto come elemento da contrapporre all'alone sacro, di cui era contornata la stirpe di sangue regale.

Basta scorrere qualche pagina dei Re taumaturghi - specie il secondo capitolo - di Marc Bloch, per comprendere come la popolazione attribuisse alla stirpe regale poteri particolari. Come era possibile a Pipino appropriarsi di quel potere magico, prerogativa del sangue regale? Era necessario trovare un elemento sacro alternativo.

«Unti come re i Merovingi non lo erano mai stati; men che ogni altro Clodoveo. Ma quando nel 751 Pipino, saltando il fosso che il padre Carlo Martello non aveva osato varcare, decise di chiudere in convento gli ultimi discendenti di Clodoveo e di assumere per sé, con il potere, la dignità regia, sentì il bisogno di aureolare la sua usurpazione con una specie di prestigio religioso. Certo, agli occhi dei loro fedeli gli antichi re erano sempre apparsi come personaggi molto superiori al resto del popolo; ma essi dovevano la vaga aureola mistica che li avvolgeva, unicamente al dominio esercitato sulla coscienza collettiva da oscure reminiscenze, che risalivano ai tempi pagani. La nuova dinastia invece, stirpe autenticamente santa, doveva trarre la sua consacrazione da un atto preciso, giustificato dalla Bibbia, pienamente cristiano» (BLOCH, I re taumaturghi, 48).

Il modello dell'ordinazione regale era infatti preso dalla storia sacra, dall’unzione di Davide ad opera di Samuele. A questo riguardo basta leggere le vetrate della St. Chapelle, per comprendere la concezione politico-sacrale della monarchia franca.

Il successo dell'intervento papale è da accreditarsi a diversi fattori: l'accresciuta stima del popolo per il vicario di Pietro, dovuta in gran parte alla devozione per il martire romano diffusa dai missionari anglosassoni e la svolta morale nella concezione del potere: da una soggezione dovuta a ragioni mitologiche, magiche, ad una designazione effettuata per ragioni di idoneità effettiva al governo.

Nascita dello stato pontificio

Nel 751, anno dell'unzione di Pipino il re dei Longobardi, Astolfo, aveva conquistato tutto ciò che rimaneva dei territori Bizantini e non nascondeva le sue mire espansionistiche: serpeggiava ancora una volta il vecchio ideale longobardico dell'unificazione nazionale.
Si riproponeva lo schema di sempre. Il papa Stefano II tentò la carta diplomatica stringendo alleanza con i Longobardi, ma l'accordo durò poco. Partì allora un'ambasciata per l'Oriente, sempre più assente, e ora ancora più lontano, a causa dell'irrigidimento di Costantino V Copronico nella lotta iconoclasta - nel 754 viene riunito un concilio a Iereia a questo preciso scopo -, che naturalmente non ottenne il risultato sperato. Nel 752, in gran segreto Stefano II si rivolse ai Franchi. Pipino inviò Crodegango e Auscardo con l'invito per il papa a recarsi in Francia.

Nel viaggio si fece tappa a Pavia per un incontro con Astolfo: era infatti giunta dall'Oriente una delegazione dell'Imperatore per cercare di convincere i Longobardi a restituire i territori conquistati. Dopo il fallimento di questo ultimo tentativo diplomatico, Stefano si avviò definitivamente verso Ponthion, vicino a Chalòn sur Marne.
L'incontro con il Re franco avvenuto nell’Epifania del 754 descritto più tardi nel Costitutum Costantini, divenendo un topos dei cerimoniali curiali fino a Federico Barbarossa, re Pipino avrebbe accompagnato il papa in qualità di palafreniere. A Carisiacum (l’odierna Quierzy) Pipino promise al papa di aiutarlo (Vita di Carlo Magno di Eginardo). Come gesto di gratitudine Stefano ripeté l'unzione sulla famiglia reale e insignì Pipino con il titolo di Patricium romanorum.

Il Codex Carolinus, raccolta di lettere dei sovrani franchi, parla di Foedus charitatis tra il papa e Pipino. Le ipotesi sulla interpretazione di questi fatti sono molte. Il patto di carità sarebbe secondo alcuni un legame di vassallaggio, o una promessa di patrinato da parte del papa. Il titolo di patricius, usato dai Bizantini come riconoscimento onorifico per gli ufficiali dell'Impero, conferito a Pipino, sarebbe stato una usurpazione papale, che avrebbe voluto costituire il re franco come autorità laica di sorveglianza sui territori bizantini in Italia. Per i bizantinisti la Roma del tempo non sarebbe stata capace di una tale elaborazione ideologica. Si tratterebbe allora di un titolo che il papa si limitava a trasmettere da parte dell'Imperatore, che non avendo ottenuto la resa di Astolfo, invocava ora l'aiuto dei Franchi.

Anche la Promissio carisiaca, che comprendeva un numero sterminato di territori, sarebbe difficilmente comprensibile in quel contesto.  Di fatto il documento originale non esiste, la notizia ci viene solo da una richiesta di Adriano I a Carlomagmo, nel 774, in occasione del pellegrinaggio a Roma da parte del Re franco.  Ma l'ideologia del potere imperiale in Occidente nel pensiero della curia romana al tempo di Adriano I era profondamente mutata. Gli storici si dividono infatti tra una negazione assoluta della donazione di territori e una forma di “promessa di garanzia”, che costituiva Pipino garante, a diverso titolo, della sicurezza del papato, entro certi territori.  In particolare si può ipotizzare che gli ex territori Bizantini sarebbero stati ceduti al Papa, mentre i possedimenti longobardi, Spoleto e Benevento in particolare, sarebbero rimasti sotto l'egida dei Franchi.  In ogni caso, i territori registrati nel documento del tempo di Adriano I e attributi al patto-promessa di Pipino a Stefano II - promissio carisiaca - ,  costituiscono lo spazio in parte concreto in parte ideale dello stato pontificio.

La Promissio venne attuata nel corso delle guerre tra Franchi e Longobardi. Dopo l'ingiunzione di Pipino ad Astolfo, di restituire i territori sottratti a Bisanzio e al papa, non avendo sortito alcun esito positivo, si diede inizio alla campagna armata.  Con la prima pace di Pavia, i Longobardi si ritirarono dai territori di conquista, restituendo quelli del ducato romano al Papa e quelli di Bisanzio all'arcivescovo di Ravenna. Questo non mutò sostanzialmente lo statu quo precedente alla promissio.

Nel 756 fu necessaria una nuova campagna e fu a questo punto, che con la seconda pace di Pavia, il papa ricevette Ravenna e la Pentapoli, ex territori bizantini.  Il gesto rivoluzionario veniva ratificato con un gesto di notevole carica simbolica: Crodegando deponeva le chiavi di 21 città sulla tomba di Pietro, volendo qualificare l'azione di Pipino come un dono dei territori al Principe degli Apostoli.

A Roma non sembrava essere maturata da ciò una coscienza di autonomia da Bisanzio: monete e datazione rimanevano quelle imperiali. Politicamente, comunque, sorgeva un organismo amministrativo-militare di iudices palatini, praefectus militiae, autorità consolare - a Ravenna - ,  esercito urbano, da cui si rileva in modo ormai chiaro l'inizio del dominio temporale (lo stato pontificio in vigore fino al 1870 e dal 1929 ad oggi). Nella guerra civile tra principi Longobardi, Desiderio, per avere il papato dalla sua, cedette al dominio pontificio altri territori: Ferrara, Bologna e la Marca anconitana. Dopo un tentativo di alleanza dei Longobardi con i Bizantini, i Franchi ottennero che Desiderio si facesse difensore della Chiesa di Roma contro i Bizantini e il nuovo conato di alleanza con l'Occidente da parte di Bisanzio - questa volta con i Franchi -, per mezzo di politiche matrimoniali, fallì con il Concilio di Chantilly, in cui si condannò la persecuzione contro le immagini.

Alla morte di Pipino, mentre i figli, Carlo e Carlomanno erano in conflitto per il dominio del regno, l'Italia, lasciata a se stessa, era in preda a lotte per la successione alla cattedra papale. Iudices militares e Proceres ecclesiae, si disputavano la massima carica ecclesiastica.

Con alleanze intrecciate con i Longobardi, il primicerio Cristoforo(3) riesce ad aver la meglio sul suo avversario, il duca Toto, a far annullare l'elezione del laico Costantino, fratello di Toto, e a rimpiazzarlo con Stefano III.
A successo ottenuto poi, egli ripudiò gli stessi Longobardi, organizzando, con l'aiuto franco, un concilio romano, dove venne definita la prassi dell'elezione papale (769): non più laici al soglio pontificio, ma chierici, anche di soli ordini minori; i laici esclusi anche dal diritto di voto, che rimaneva appannaggio del clero di Roma e degli ufficiali della curia; i soli a godere di voto attivo rimanevano gli ufficiali maggiori della curia pontificia; il synodus lateranensis sostituiva la conferma dell'elezione da parte di Bisanzio e al popolo romano rimaneva l'acclamazione del neo eletto.

Il Matrimonio di Carlo con Ermengarda e la conseguente alleanza con i Longobardi favorì la vendetta di questi ultimi nei confronti del primicerio Cristoforo (causandone la morte) e del suo beniamino, papa Stefano III.  Solo un anno dopo si attua il ripudio di Ermengarda, effetto anche di un intervento del papa che non vedeva bene l’alleanza tra Franchi e Longobardi.
 L’allontanamento della consorte longobarda cambierà le sorti della politica europea: Carlo, che seguiva l'ideologia dell'imperium, ideale che era stato un tempo di Bonifacio, e desiderava espandersi oltre i confini del regno, non poteva che ingaggiare una guerra contro i Longobardi. Tanto più che questi ultimi avevano stretto alleanza con Tassilo di Baviera, nemico di Carlo, e con il fratello Carlomanno. Anche il papa Adriano I, rifiutando la proposta di incoronazione dei figli di Carlomanno, avanzata da Desiderio, si pose sulla stessa lunghezza d'onda di Carlo. Con la vittoria sui Longobardi, Carlo si attribuì l'appellativo di Rex Francorum et Longobardorum et Patricius Romanorum, assumendo non solo il controllo sull'Italia, ma ponendosi anche come alternativa all'Impero d'Oriente.

La conferma della Promissio carisiaca, come elemento di garanzia nei confronti della chiesa di Roma fu una prova ulteriore della sua coscienza imperiale. Dall'altra parte anche il Papato compiva una evoluzione: la trascrizione nel Liber pontificalis, della narrazione dei fatti di Carrisiacum prese la forma di una vera e propria donazione. Secondo alcuni l'ideologia della donatio costantiniana nascerebbe proprio in questo contesto.
Quando poi nel 781, Carlo ritornò in Italia per regolare la situazione politica e firmò il documento di cessione al Patrimonio di S. Pietro della Pentapoli, dell'Esarcato e di altri territori bizantini, concedendo al Papa anche la tassa pagata un tempo a Bisanzio da parte di Spoleto e della Tuscia longobardica, Adriano I pensò di coniare monete proprie e cambiò il criterio di datazione introducendo, nei documenti ufficiali, gli anni del pontificato del papa regnante: lo stato pontificio aveva ormai ricevuto la sua piena legittimazione. Nel 787 Carlo avrebbe aggiunto ancora altri territori, ciò non avrebbe comunque aggiunto niente dal punto di vista ideologico, alla svolta impressa del 781 da parte di Adriano.

Anche dal punto di vista architettonico Roma cambia aspetto, vengono realizzate opere edilizie: acquedotti riparati, nuovi edifici pubblici. Anche culturalmente il Papato fece uno scatto in avanti, lo si vedrà ancora meglio più avanti, analizzando l'ideologia imperiale della Curia. L'Oriente con Irene rinunciò alla politica iconoclasta e celebrò il sinodo di Nicea. Adriano, in cambio di una approvazione romana degli atti del concilio celebrato in Oriente, cercò di ottenere i territori bizantini collocati al sud, ma non vi riuscì. Intanto nel Sinodo di Francoforte (794) dominato da Carlo fu pronunciata quasi una condanna degli atti di Nicea, che però erano stati tradotti erroneamente (confusione tra l’adoratio con la veneratio). Emerge così, ancora una volta, l'ideologia carolingia, quasi una svolta ecclesiologica, i cui connotati sono stati illustrati dall'Arnaldi in un articolo sui Libri Carolini.

Nel prologo ai Libri Carolini Carlo afferma di aver ricevuto in affidamento da Dio il governo della chiesa (franca): si trattava allora di una chiesa territoriale, ma che per questo non lasciava cadere pretese universali. Egli infatti l'aveva costruita ad instar di quella romana: le norme per il culto (sacramentario romano), l'ordinamento giuridico-istituzionale (Collezione Dionysio- Adrianea), il modello di vita monastica (Regola di S. Benedetto) li aveva attinti alla tradizione romana, pur senza darsi premura di conferme papali a loro riguardo. Del resto, anche Bonifacio aveva agito nello stesso modo, chiedendo spiegazione su norme scritte, per le quali riteneva depositaria la Chiesa romana, e poi lamentandosi con il papa quando concedeva deroghe, cioè immetteva novità, nel tessuto tradizionale dell'ecclesiologia romana del tardo-antico.

Questa linea Bonifacio-Carlo Magno concorre in qualche modo a fornire il quadro istituzionale, in cui si inscrive anche l'evento dell'incoronazione del re franco nel Natale dell'800.


NOTE

1)  La solennità dell’Esaltazione della Santa Croce si collega appunto con la riconquista di Gerusalemme e il recupero delle reliquie della Santa Croce da parte dell’imperatore Eraclio I che il 14 settembre del 628 festeggiò il suo trionfo a Costantinopoli per la vittoria riportata contro i Persiani.

2)  Liutprando assai abilmente sfrutto la situazione di stallo generatasi nell’Esarcato con la soppressione dell’esarca Paolo di Ravenna per effetto delle reazioni causate presso la popolazione locale delle normative iconoclastiche imperiali, nonché la scoperta del suo piano di eliminare il papa in seguito alla contrarietà di questi all’iconoclastia.

3Quello di primicerio (latino: primicerius, "primo iscritto") era il titolo spettante, nel Medioevo, ad un dignitario di primo rango in un’amministrazione civile o al primo tra i canonici di un capitolo cattedrale o al capo di una confraternita. Nei secoli IV-XI, a Roma il titolo indicava il prefetto della cancelleria apostolica e capo dei notai pontifici. A Venezia, invece, tra il X e il XIX secolo per primicerio si indicava il canonico reggente con prerogative episcopali la basilica di San Marco e le relative dipendenze in nome del Doge. Il termine deriva dalle parole latine primus ("primo") e cera ("cera"), a indicare il primo iscritto in una lista (di cera come all'uso presso i Romani). Il titolo di Primicerio è ancora conservato come dignità in alcuni Capitoli (come ad esempio nell'arcidiocesi di Milano).


Fonte:  Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accadem

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