martedì 13 settembre 2011

VERONA 1866: LE TRUPPE ITALIANE ENTRANO DA PORTA VESCOVO

Festa  dell’esito del Plebiscito  in Piazza Brà. I voti favorevoli all’annessione sono 88.864, i contrari 4.  Si può "notare che", a parte  l’esercito schierato,  le autorità, i nobili e la ricca borghesia,  i veronesi quasi tutti latitanti.


Gli Austriaci sono a Verona nel 1815, ed il nuovo confine tra i due stati è segnato dal Mincio. Il 24 Marzo 1829 faceva il suo ingresso il Vescovo Giuseppe Grasser, nato a Cavalese in Val Venosta. I veronesi non lo accolsero con molto entusiasmo: era tedesco e parve che con lui si chiudesse completamente il cerchio straniero perché le autorità politiche, militari, e perfino ecclesiastiche, erano tedesche. In seguito però i veronesi lo videro dotato di buoni pregi, e gli si affezionarono subito.
In quel periodo si cercavano le ossa di San Zeno, che erano scomparse da moltissimi secoli, il Vescovo Giuseppe Grasser le riconobbe, e il 25 Agosto 1839 il Santo ritornò il nostro protettore della Diocesi.
Ma poi, sotto l'influenza della massoneria, il 24 aprile 1868, il nuovo Consiglio Comunale abrogava le sentenza del Vescovo, finché nel 1889 il Vescovo Luigi Canossa,  in occasione del 50° anniversario del ritrovamento del corpo di San Zeno, dava invio ai lavori alla cripta, posandovi il corpo del Santo e dimenticando, così, quello che aveva imposto la massoneria.

Rimaneva da risolvere il mistero di dove si trovava la prima chiesa di San Zeno. Secoli dopo, nel 2011, si costruisce in Piazza Corrubio il garage interrato; se ne trovano le tracce, si è deciso di distruggere le fondamenta della prima chiesa di San Zeno.

Con il Vescovo Giuseppe Grasser iniziavano i vescovi austriacanti. Difatti l'ultimo Vescovo fu sempre di Cavalese, Benedetto Riccabona de Rejchenfels (1854-1861 ), ma venne trasferito a Trento. Sembra quasi che le autorità ecclesiastiche anticipassero la futura unità di Verona a Casa Savoja.  
Il nuovo Vescovo è Luigi di Canossa. La sua nomina fu molto gradita: sia perché si aveva finalmente un Vescovo veronese, sia per il suo carattere cordiale aperto ai tempi nuovi. Infatti, nella sua prima lettera pastorale al clero, al popolo veronese, e alle poche parrocchie al di là del Mincio, che dal 1859 erano sotto il governo di Vittorio Emanuele, raccomanda a quei suoi figli spirituali l'obbedienza alle leggi e la fedeltà alla regnante Casa di Savoja.  
Il comportamento "antiaustriacante" del Vescovo Canossa non era condiviso da una parte del clero e dei cittadini    perché vedevano cosa era accaduto ai veronesi che si trovavano sulla sponda opposta del Mincio, passato ora al Regno d'Italia. La Chiesa, sotto una potente massoneria anticlericale, portò anche alla chiusura di Istituti religiosi. La popolazione era ridotta alla fame. Tutto sommato si viveva meglio sotto Francesco Giuseppe  perché le leggi erano uguali sia per i Viennesi che per i veronesi, ed erano migliori di quelle nuove emanate da Vittorio Emanuele II.   Cinque anni dopo si concluse la terza guerra  d'indipendenza.

Proseguiamo nella nostra lettura, leggendo quello che scriveva nel 1895 Federico Bozzini, nel suo libro "L'Arciprete e il Cavaliere". Un paese Veneto (Cerea) nel Risorgimento Italiano.

«... Gli italiani hanno perso tutte le battaglie, ma i loro alleati prussiani hanno vinto la guerra.  Al tavolo delle trattative, i rappresentanti diplomatici del nuovo Stato siedono con estremo imbarazzo. L'Impero asburgico fa tutte le concessioni di sostanza ai nemici sconfitti, ma non molla sulla forma.  Il Veneto viene ceduto a Napoleone III che deve trovare le forme opportune per consegnarlo a sua volta al Regno d'Italia. Il ricorso alla democrazia plebiscitaria è l'unica legittimazione che resta a chi è stato sconfitto militarmente. Dalla partenza delle truppe austriache alla pubblicazione dei risultati del plebiscito il Veneto è consegnato a se stesso. Non esistono ufficialmente autorità o funzionari "statali". Gli unici punti di aggregazione politica restano i comuni 
Il dieci giugno l'Arciprete di Cerea don Bennassuti abbandonò la parrocchia e seguì l'esercito austriaco, passando il confine a Ossenigo, e si fermò a Rovereto, in attesa di vedere come si svolgevano gli avvenimenti a Verona. Nel febbraio del 1867 don Bennassuti torna dal Tirolo a Verona. Il vescovo Canossa proteggerà sempre don Bennassuti.

La stessa vicenda successe anche a quei veronesi e austriaci che vivevano in Verona, ma avrebbero votato per il No.

Proseguiamo il racconto di Federico Bozzini.
« ... Tutti i veneti che si sono schierati con gli italiani si buttano a capofitto nell'impresa di far trasparire dall'urna un'unanimità di intenti niente affatto sicura. La violenza politica e burocratica deve surrogare la forza militare.  Malgrado le disposizioni internazionali, il primo grosso sforzo compiuto dai funzionari partigiani è quello di dar per scontato il risultato. Bisogna creare l'impressione che le vicende non possano andare diversamente.
Il 6 ottobre 1866 il commissario distrettuale scrive alla deputazione comunale. Ordina che,  "per prevenire eventuali sfregi alle insegne del Governo che ormai ha ceduto di diritto"  ma non ancora di fatto, esse "siano ritirate all'interno dei locali ufficiosi".  Raccomanda che l'asporto degli stemmi imperiali  "che si trovano esposti alla pubblica vista"  venga compiuto  "senza pubblicità e nelle ore di notte".  La preoccupazione è eccessiva, I nostri patrioti aspetteranno pazientemente che le truppe austriache si trovino ad una sufficiente lontananza prima di dar sfogo alloro odio contro la tirannide straniera.

Il 10 ottobre 1866 la congregazione municipale di Verona, unica autorità morale rimasta a governare anche la provincia, emana una circolare in cui invita tutti i commissari distrettuali del passato regime a restare al loro posto.

L'11 ottobre le truppe austriache si ritirano dalla bassa veronese. Di conseguenza dal  12  corrente, "lo scrivente Ufficio assume la rappresentanza e l'ingerenza del governo italiano".  Possiamo capire lo stato di incertezza di un funzionario che si trova a rappresentare nessuno.  "Con tal giorno - aggiunge di propria iniziativa - tutti i pubblici documenti dei Comuni, Notai, Ingegneri, e Pii Istituti, dovranno essere intestati colla indicazione Regno d'Italia".

A badare il commissario il distretto di Sanguinetto è già stato annesso al nuovo regno. Con il suo zelo burocratico ha già provveduto alla carta intestata. Aggiunge poi un'osservazione totalmente ovvia anche per il più fervido austriacante:
"E da tal giorno la Chiesa ha obbligo di non più invocare la benedizione divina sopra un governo straniero e legalmente cessato.".
A guardare bene, non si tratta di un'osservazione scontata. E' una minaccia. Chiude la propria missiva raccomandando  
alle Deputazioni Comunali d'invigilare, e operare, acciò che la consociazione di questa nostra esistenza nazionale, sia compresa e festeggiata nel pubblico col dovuto onore, al grido festante di Viva l'Italia”.

Il nostro Commissario ha esagerato. Si è spinto un po' troppo avanti nell'esposizione del fatto compiuto. Però questo è il clima generale nel quale i funzionari e le autorità filo italiane predispongono la libera scelta delle popolazioni venete.

A decidere questa volta è la massa. Il plebiscito ha l'inconveniente di mettere la borghesia nella necessità di convincere i contadini, e costoro possono essere raggiunti dalle idee solo in un 'occasione: durante le prediche domenicali. »

Il 16 ottobre, entrano da Porta Vescovo le truppe Italiane. Come si vede era già deciso tutto ancora prima del plebiscito.

«Il plebiscito è fissato per domenica 21 ottobre.
La Deputazione comunale scrive ai tre parroci del circondario il mercoledì precedente. Invita fermamente il clero "a voler istruire questa popolazione del solenne atto che sarà chiamata a far parte, illuminandola con saggi schiarimenti".
E' il problema storico della borghesia rurale: per avere un rapporto culturale e politico con la plebe contadina, deve passare dalla testa e dalla bocca del parroco.
Malgrado il suo radicale anticlericalismo ha un bisogno disperato dei preti quando deve muovere la popolazione, anche se non è una necessità che si presenta di frequente: normalmente la borghesia basta da sola.

In questo caso però gli accordi armistiziali richiedono questa farsa di democrazia e la giunta è costretta a regredire dal suo laicismo, ad imbonire i parroci disprezzati perché si facciano portatori del suo messaggio politico.

Arrivano finalmente le indicazioni tecniche su come si deve votare, e il commissario le riassume in una lettera. E' sabato 20 ottobre. Il plebiscito "sarà aperto domani appena finita la messa parrocchiale". Non solo la borghesia ha bisogno del clero per comunicare con la plebe campagnola, ma è pure costretta a cadenzare le proprie iniziative sui tempi ecclesiastici.
Per far votare i contadini deve disporre l'urna di fronte alla porta della chiesa e aspettarli all'uscita dalla messa. "Procuri - suggerisce ancora il commissario - che possibilmente vi sia una sola sezione per tutto il comune". Dai giornali patriottici e dalle carte dei commissari traspare costantemente, in quei giorni, di non far votare i villici in piccole sezioni.

I borghesi ed i funzionari filo italiani sono relativamente molto pochi. Il problema è di concentrare persone civili ed autorità in modo che i contadini siano avviati al voto sotto buoni occhi patriottici.
La semplice descrizione della tecnica del voto spiega da sola molte cose.
"Come già si disse - continua il commissario - vi devono essere due urne separate, una sopra un tavolo, l'altra sopra l'altro. Se per caso non avesse urne apposite, potrà adoperare due misure di capacità pei grani, cioè una quarto od un quartarolo. Sopra una sarà scritto ben chiaro il Si, sopra l'altra il No".

E' la prima volta nella storia che vie n chiesto il voto ai contadini. Com'è possibile intuire, non c'è da aver preoccupazioni sul suo risultato. Si possono tranquillamente ammettere "a presentare il proprio viglietto anche gli illetterati" e gli abitanti più rozzi delle frazioni. Solo le donne, ovviamente, vengono escluse.

"Libero sempre il voto, - continua senza umorismo il funzionario - a Deputazione Comunale, la Possidenza, e tutte le persone intelligenti e patriottiche procureranno che il maggior numero possibile di votanti, si accosti all'urna".
Bisogna che il plebiscito appaia come un fatto sufficientemente di massa per assumere il valore di legittimazione politica che gli si vuole attribuire.
Quanta libertà di voto rimanga con questo apparato è facilmente comprensibile. La sua piena pubblicità è una garanzia di controllo totale.

Il contadino illetterato esce di chiesa, viene spinto a votare dalla folla patriottica, prende il suo biglietto, deve scrivere o farsi scrivere il si o il no, e poi fra due ali di folla, sotto gli occhi dell'autorità comunale, delle persone "intelligenti e patriottiche", della "possidenza", magari dello stesso padrone sotto il quale deve lavorare il giorno dopo, può "liberamente" scegliere verso quale delle due urne dirigersi.
Non è finita. Dopo aver deposto il suo voto, l'elettore deve recarsi dal segretario del seggio che tiene un registro dove scrive i nomi dei "votanti mano a mano che si presentano".
I protocolli sono due, "uno pei votanti che presentano il viglietto del Si, l'altro pei votanti che presentano il viglietto del No, per modo che il numero complessivo dei viglietti [che], finita la votazione, si troveranno in ciascheduna urna, dovrà corrispondere all'ultimo numero progressivo del protocollo. Nel protocollo pei viglietti del No si dirà: votarono negativamente i seguenti cittadini".
La piena pubblicità del voto rende inutile lo spoglio finale.

Il giorno fatidico si avvicina. La deputazione pubblica un "Avviso" in cui rende noto che domenica 21 ottobre, alle 10 di mattina, tutti gli abitanti maschi del comune che han compiuto 21 anni possono votare. Il seggio verrà riaperto anche il lunedì. Per dar solennità alla faccenda e per creare occasioni di convegno popolare avvisa che, sempre domenica, "alle ore una e mezza del dopo pranzo avrà luogo a questa Parrocchiale la funzione della Benedizione delle Bandiere".

Ora che il parroco reazionario e rissoso è stato costretto alla fuga, ogni resistenza clericale ai desideri patriottici e progressisti della deputazione è crollata. Mancando la trainante personalità del Bennassuti, i due Parroci di Asparetto e Aselogna non si fanno più sentire.  Il prete anziano e acciaccato, che funge da vicario nella parrocchiale di Cerea, non ha energia. Si accoda ubbidiente a tutti i desideri della deputazione vittoriosa, che, dal canto suo, cerca e trova tutti i mezzi per ostentare pubblicamente il suo trionfo. Per l'occasione fa acquistare "tela ed aste necessarie per la formazione di nove bandiere nazionali da esporre nei seguenti luoghi. Una per l'Ufficio Comunale, una per la torre della Chiesa Parrocchiale, una pel campanile della Chiesa della Madonna, e sei per le statue esistenti sul piazzale della Chiesa Parrocchiale".  Su nove bandiere, otto vengono piazzate su campanili e sagrato.

I territorio del nemico, finalmente espugnato, viene ricoperto di tricolori, che entreranno pure in chiesa a ricevere la benedizione dalle mani tremebonde del prete Bacco.
Per predisporre adeguatamente la scenografia del plebiscito la deputazione, "onde dare la maggior pubblicità possibile ad un tale atto eresse sul piazzale della Chiesa parrocchiale un palco, il quale serviva di sede del Comizio che presiedeva alla votazione per l'annessione di queste provincie al Regno d'Italia".

E' domenica. La messa è terminata ed i contadini stanno uscendo di chiesa. Alle "ore 10 antimeridiane precise, stante il seggio sopra apposito Palco eretto sul piazzale della Chiesa di Cerea, fu dal Presidente dichiarata aperta la votazione".
II primo a salire sul palco e a deporre il suo biglietto è il sindaco Giuseppe Morgante. A sera i votanti  sono 990.  L'urna viene chiusa con tutte le formalità e "venne sugellata con cera lacca rossa ed impressa col Timbro Comunale di Cerea di conio antico portante la leggenda: Podestà di Cerea". II giorno successivo votarono altre 266 persone. Alle cinque pomeridiane, un po' dopo        sdemocratica di Cerea.
Sul municipio ancor oggi una lapide recita: "XXII settembre MDCCCLXVI. Questa date ricordo del solenne plebiscito che la congiunse alla libera Italia Cerea ai più lontani nepoti tramanda". La formula sulla quale si è votato dice:
"Dichiariamo la nostra unione al Regno d'Italia sotto il Governo Monarchico costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori".

Riassumendo il significato del voto, un foglio veronese così scrive:
"Si, vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell'Italia. No, vuol dire restare Veneto e contraddire al voto dell'Italia". »

I TUMULTI: LA MORTE DI CARLOTTA ASCHIERI

Morte di Carlotta Aschieri

Per concludere,  è giusto ricordare come iniziarono i tumulti in Piazza Bra.
Verona aveva due piazze: Piazza delle Erbe era riservata ai veronesi, Piazza Bra agli austriaci. Il 6 ottobre 1866,  per festeggiare la pace fra l'Austria e l'Italia, in un attimo la città si riempì di tricolori.  Alla  sera il popolo di  Piazza delle Erbe percorse Via Nuova sfociando nella Bra.

Davanti al Caffè Europa (Caffè militare, Via Mazzini 85 A, ora lntimissimi) stavano molti soldati austriaci. Un gruppetto di veronesi entrò nel caffè, alcuni ufficiali stavano pagando il conto di quello che avevano consumato, ad uno di questi cadde il portafoglio a terra e nell'inchinarsi per raccoglierlo gli arrivò una pedata nel deretano e  fini disteso. Immediatamente   scoppiarono i tumulti e Carlotta Aschieri ci rimise la vita.  Questo rapporto è conservato  all’Archivio di Stato di Verona.

Lapide a Carlotta Aschieri

Per terminare su questo triste avvenimento, in  suo ricordo fu esposta una lapide.
Per la storia di questa si ricorda che le ultime due righe: «ultimo sfogo di moribonda tirannide»  non vi figuravano fino alla fine della prima guerra mondiale. Nel 1938, siamo ai tempi dell'Asse italo - germanico, quando il Fuhrer passò da Verona, le ultime due righe furono coperte  con il gesso. Dopo la Liberazione (25 aprile 1945), il gesso fu tolto. Sul lato opposto della casa vi è la targa che ricorda la fucilazione del giovane Luigi Lenotti in Campofiore. Oggi parcheggio automobilistico, vicino alla rete di recinzione vi è una croce in pietra bianca, questa fu costruita dalla mamma di Luigi e impiantata sul luogo dove morì suo figlio.

Il popolo veneto rimpiangerà il dominio austriaco, perché il giorno 5 gennaio 1868 Quintino Sella emanerà la legge sul macinato, che colpisce solamente le classi popolari, e canterà:

Co san Marco dominava, se disnava e se cena.
Co la cara libertà (la Francia) s'à disnà, no s'à cena.
Co la casa de Lorena (Austria) non se disna e no se cena.
Viva la casa de Savoia, che la ne fa patir na fame troia


Fonte: srs di Albero Solinas;  da Festeggiamenti di Santa Toscana 2011

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