martedì 20 dicembre 2011

QUEL GIORNO, IN COMPAGNIA DI SERGIO BONELLI E DEI RICORDI DELLA MADRE TEA BERTASI

 Sergio Bonelli
Il 29 maggio 2007 mi recai a Milano per intervistare  uno dei più grandi editori del fumetto italiano.  Sergio Bonelli, in quell’occasione, mi parlò in via confidenziale e del tutto esclusiva della madre Tea Bertasi, personaggio di cui si hanno poche notizie, ma che ebbe un ruolo determinante nella storia della casa editrice.

Sergio Bonelli è stato uno degli ultimi grandi editori del fumetto italiano. È scomparso lo scorso 26 settembre  2011 a Milano in seguito a una breve malattia. Aveva 79 anni.
Il padre Gian Luigi inventò il celeberrimo Tex Willer, Sergio continuò a svilupparne la storia prima di dedicarsi, dal 1958, all’editoria. Con amore, passione e rispetto per i creatori e disegnatori, inventò personaggi noti come Zagor e Mister No, e con la sua casa editrice ha pubblicato i famosissimi Dylan Dog e Nathan Never.

Con lui ebbi un incontro suggestivo nella primavera del 2007. Mi accolse in una piccola stanza riservata agli ospiti con moquette rossa alle pareti e divanetti in stile liberty all’interno della grande redazione di via Buonarroti 38.  Iniziammo la nostra chiacchierata parlando di sua madre, Tea Bertasi, di cui si hanno tutt’oggi scarse informazioni.  Mi trovai di fronte una persona dal forte carisma, ma al contempo schietta e di grande cuore. In un’ora abbondante di conversazione dipinse il carattere della madre, la figura del padre, gli anni della sua giovinezza, con le passioni per lo sport e il cinema. Accennò ai momenti chiave della casa editrice, motivò le sue scelte, confidò le sue intuizioni, i suoi trionfi, ma anche i suoi insuccessi.

Signor Bonelli, com’è avvenuto il passaggio di consegne tra suo padre, Gian Luigi, e la moglie Tea?
Nel 1946, appena dopo la guerra, all’interno della mia famiglia si creò una situazione del tutto particolare. Durante il periodo bellico mio padre scappò in Svizzera per ovvi motivi politici e militari e quando tornò, lui e mia madre si separarono. Fu una separazione “senza colpo ferire”, avvenuta in un clima di assoluta serenità, tanto è vero che poi i miei genitori continuarono a collaborare.

Tea Bertasi 

Mio padre non desiderava più fare l’editore, voleva scrivere: non era portato a prendere iniziative e a dirigere persone: nonostante la casa editrice qualche anno prima, nel 1939 o nel 1940, era costituita soltanto da Gian Luigi Bonelli e da Franco Donatelli, (più tardi disegnatore conosciuto) che allora faceva il ragazzo di bottega. In casa si lavorava al giornale “L’Audace”, di sedici pagine, settimanale che a volte usciva con una periodicità diversa in base alla possibilità. Mio padre preferì scrivere soltanto. Scrisse per Casarotti e la Dardo, per i Della Casa, piccole case editrici i cui editori erano stati tutti suoi colleghi prima del conflitto. A quel tempo i disegnatori uscivano tutti dalla matrice dell’editore Lotario Vecchi, che possedeva tre o quattro testate famose: “L’Audace”, “Jumbo”, “Primarosa”, “Rin Tin Tin”. Nella sua bottega mio papà scriveva, Casarotti dirigeva la tipografia. Quei collaboratori sarebbero poi diventati i maggiori editori del dopoguerra. Fu in quel preciso momento che entrò in gioco la figura di mia madre e ci fu il passaggio di consegne tra lei e Gian Luigi.

Tea Bonelli non era certo un’esperta di fumetti perché aveva sempre fatto la casalinga, ma si improvvisò. Era tosta, più di me e più di mio padre e non ebbe paura di prendersi delle responsabilità, di farsi prestare del denaro dalle banche, di avere debiti con il tipografo. I ruoli tra mia madre e mio padre si capovolsero con un semplice accordo che mise lei a capo dell’attività e lui nel ruolo di collaboratore, un free lance. È difficile spiegare alla gente che nonostante fossero separati, andassero comunque d’accordo.

Come mai si parla poco della signora Tea Bonelli nonostante sia stata così importante per le sorti della vostra attività?
Tea Bonelli non ebbe mai l’attenzione della stampa o dei giornali perché negli anni Cinquanta non si parlava quasi mai di fumetto, né tanto meno di donne che si occupavano di questa attività. Solo le sorelle Giussani, riuscirono a far parlare di loro perché sconvolsero l’ambiente creando il famoso Diabolik, un personaggio per quei tempi trasgressivo. Anche i lettori non prestavano attenzione se negli albi c’era il mio nome o quello di Tea Bonelli, al limite si interessavano dell’autore. Il nome dell’editore era poco importante, tant’è che quel periodo è ricchissimo di nomi di direttori fasulli: bisognava essere iscritti all’albo dei giornalisti per ricoprire quell’incarico e molti non lo erano e si servivano di prestanome.

Che persona era sua madre?
Era una donna dolcissima, il contrario di quello che ci si può aspettare da una persona intraprendente. Aveva una vita famigliare normalissima, faceva la moglie in casa e non mi faceva mancare nulla come mamma. Era una bella donna, ma di certo non andava in giro a feste o a fare shopping in via Monte Napoleone. Conduceva una vita molto modesta. Non era affatto severa con me e con le altre persone, però era molto ferma nelle sue decisioni perché sapeva scegliere e capire la sua dimensione. Nel lavoro si accontentava dei propri risultati, non sapeva cosa fosse l’invidia e non si preoccupava neppure di conoscere i suoi concorrenti. Con me era senz’altro presente, ma non aveva bisogno di spingermi verso il mondo dei fumetti perché io ero già appassionatissimo e leggevo molto. A lei sarebbe piaciuto che io avessi studiato e che mi fossi laureato in legge: mi ripeteva “Un avvocato serve sempre”. In realtà io non ero bravissimo a scuola, ma lei fu molto tollerante con me. Quando fui bocciato lei non ne fece un dramma, non si arrabbiò neppure. Gradiva che mi indirizzassi verso il fumetto in modo spontaneo, era contenta quando mi vedeva contento. Ho avuto un giovinezza felice, molto divertente: giocavo a pallone con gli amici, andavo a nuotare, uscivo con le ragazzine, non mi perdevo un film.
Qualche anno più tardi, finito il militare, provai anche l’esperienza universitaria. Frequentai per un paio di anni le lezioni sostenendo due esami, andati male e chiusi la parentesi dell’università. Mi ritrovai nella nostra mini-redazione: parlavo con i disegnatori, cercavo di capire i loro segreti e intanto osservavo il lavoro di mia madre.
Appena giunto il momento, con grande cuore, si rese subito disponibile a uscire ufficialmente dalla scena lasciandomi il posto, aiutandomi nei conti negli anni ‘50 e ‘60. Si “arrese” soltanto verso la metà degli anni ‘70 quando l’azienda iniziava a ingrandirsi e allora la parte amministrativa si era fatta più pesante, i bilanci diventavano sempre più difficili e complessi. Si ritirò di buon ordine, pur continuando a guardare gli albi che le portavo a casa.

E suo padre, Gian Luigi, che ruolo aveva nel contesto aziendale?
Mio padre era un free lance, pagato come tutti gli altri. Dopo aver creato Tex nel 1948, decise di dedicarsi totalmente alla nostra casa editrice. C’era grande armonia tra di noi. Nel frattempo si era risposato con una signora alla quale io ho voluto molto bene e con la quale andavamo spesso in vacanza. Insieme hanno avuto un figlio, mio fratello Giorgio: siamo stati gli inventori, se così si può dire, della “famiglia allargata”. Andavamo a mangiare insieme alla domenica e facevamo tutto questo molto serenamente, non c’è mai stato un momento di scontro o un diverbio fra le due mogli di mio padre.

Ci sono analogie o differenze artisti che tra lei e suo padre? Cosa “deve” a Gian Luigi Bonelli per la sua formazione professionale e personale?
Mio padre sosteneva che l’avventura doveva essere sempre seria e mai far ridere, perché in quel modo si distraeva il lettore. Di me diceva che avrei potuto scrivere le storie di Paperino invece delle avventure, perché non ero poi così avventuroso: Non mi sono mai immedesimato nell’eroe come faceva lui. Mio padre ci credeva, gli sarebbe piaciuto essere un eroe. Gli devo la passione per la lettura perché in casa mi ha sempre fatto trovare i libri di autori della letteratura anglosassone: da Joseph Conrad a Zane Grey e tanti altri. Amava moltissimo Jack London e aveva tradotto alcune sue opere pur conoscendo l’inglese a spanne perché, in fondo, era un autodidatta.
Mi ha trasmesso anche la passione per il cinema (ci andavamo spesso assieme) e per la vita dinamica. Era un uomo bellissimo dal fisico atletico, ottimo nuotatore e un discreto pugile. Fino ai settant’anni andava ancora sulle piste innevate con mio fratello.

La sua voglia di mantenere un rapporto stretto con la tradizione nelle scelte artistiche ed editoriali viene criticata perché indice, secondo alcuni, di scarsa innovazione. Altri, invece, pensano che sia valore aggiunto per il vostro marchio...

Non molti capiscono le mie iniziative perché ignorano le motivazioni personali che stanno a monte delle mie scelte. La mia è un’azienda personalizzata e anomala. Io so perché non faccio pubblicità, perché non ho accettato una serie, perché nel momento in cui avevo chiesto un personaggio e non mi è stato dato, quando poi mi è stato offerto, l’ho rifiutato.

In tanti mi accusano di non accettare messaggi pubblicitari. Ho il massimo rispetto nei confronti di coloro che comprano i miei giornali in edicola e penso che il mio lettore non debba essere disturbato mentre legge. E non perché, come direbbe Fellini, l’emozione non deve essere interrotta, semplicemente perché una pagina di formaggini messa lì in mezzo non ha senso e dà fastidio. Io immagino che il lettore Bonelli sia come me, ami il libro, il fumetto, ami toccarlo, sentire il tipo di carta, guardare se è stampato bene o male. Se inserisci tre pagine di pubblicità involgarisci subito il prodotto.
Se qualcuno volesse essere critico nei miei confronti troverebbe cinquantamila ragioni per farlo. Mi direbbero che questa o quella serie andava chiusa prima, ma non capirebbero che il mio intento era quello di aiutare delle persone che lavoravano con me, con le quali sono diventato amico. Ma sono contento così. Certo, in alcuni casi ho sbagliato, ma per fortuna non devo comprarmi un jet ogni anno o uno yacht ogni estate. Forse il mio più grande privilegio, quando faccio il bilancio della mia vita, è di non aver avuto nessuno cui render conto.


Fonte: srs di Matteo Scolari, da Phanteo di novembre 2011

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