sabato 22 settembre 2012

L'INDOVINELLO VERONESE



separebabouesalbaprataliaaraba&alboversoriotenebae&negrosemenseminaba gratiastibiagimusomnip[oten]ssempiterned[eu]s

Se pareba boves, alba pratalia araba
Albo versorio teneba, et negro semen seminaba.
Gratias tibi agimus onnipotens sempiterne Deus.

L'Indovinello veronese è un testo in corsiva nuova vergato tra l'VIII secolo e l'inizio del IX in forma d'appunto, a margine di una pergamena contenente un codice più antico[1].

È forse il più antico testo pervenuto che usi lingua romanza (i Giuramenti di Strasburgo sono datati a cinquant'anni più tardi) e rappresenterebbe un possibile atto di nascita del volgare in Italia, ma non tutti gli studiosi sono concordi e alcuni ritengono che si tratti ancora di latino (pur se con le evidenti aberrazioni[2]).

Il codice fu originariamente redatto in Spagna all'inizio dell'VIII secolo e giunse a Verona non troppo tempo dopo. Le due postille furono individuate nel 1924.
Fu Vincenzo De Bartholomaeis a scoprirne per primo il senso, con l'aiuto di una studentessa universitaria del I anno.[1] Al testo dell'indovinello si accompagna un testo (riga 3), stavolta in latino più sorvegliato: si tratta di una formula canonica di benedizione in latino, esterna all'indovinello, ma che gli studiosi hanno utilizzato, talvolta in maniera contrastante, per avallare le proprie ipotesi linguistiche.

Trascrizione diplomatica
1 separebabouesalbaprataliaaraba & albouersorioteneba & negrosemen
2 seminaba
3 gratiastibiagimusomnip(oten)ssempiterned(eu)s

Interpretazione
Se pareba boves, alba pratàlia aràba
et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba

Traduzione
Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati,
e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava

Origini
Fu rinvenuto da Luigi Schiaparelli sul recto della pag. 3 del codice LXXXIX custodito nella Biblioteca Capitolare di Verona nel 1924[3]. Il codice è di provenienza spagnola, sicuramente di Toledo, poi portato a Cagliari, in seguito a Pisa, prima di raggiungere Verona.
Che la mano che lo ha vergato fosse veronese, probabilmente di un amanuense della stessa Capitolare, è stato attestato da un esame filologico che dimostra la presenza di tratti tipici del dialetto veronese (come versorio = aratro e i verbi all'imperfetto indicativo in -eba invece dell'-aba o -ava di altri dialetti).
La forma stilistica, secondo la dimostrazione di Monteverdi, è quella di una coppia di esametri caudati. Molto probabilmente si tratta di una "prova di penna".
Il testo dell'Indovinello è seguito da un breve formula, vergata da un'altra mano, che recita: "Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne Deus", cioè "Ti ringraziamo, Dio onnipotente ed eterno".

Significato
È una testimonianza autoreferenziale, vale a dire la descrizione dell'atto dello scrivere da parte dello stesso amanuense. Si tratta di un indovinello comune alla letteratura tardo-latina, e rimanda a quattro diverse interpretazioni, delle quali la prima è la più diffusa e condivisa. Le interpretazioni partono dal significato del primo sintagma se pareba:

Se da SIBI latino (dativo di vantaggio) e quindi traducibile in davanti a sé e pareba da PARARE latino con un significato più specifico spingere/tirare avanti (significato localizzato nel volgare nord-orientale): "tirava davanti a sé (un paio di) buoi / arava prati bianchi / guidava un aratro bianco /seminava un seme nero."

Se da SIC latino: una variante a tale traduzione del Bruni et al. fu presentata da Migliorini, secondo il quale il "se pareba" sarebbe da rendere "ecco, si vede", sul modello di autori medievali come Dante (quando egli dice: "qui si parrà la tua nobilitate" | "qui si vedrà la tua nobiltà" ecc.). Questa interpretazione parte dall'osservazione del se clitico e dall'infrazione della cosiddetta legge Tobler-Mussafia (un testo volgare non presenta mai la successione del clitico al verbo ad inizio periodo): secondo la legge infatti il testo dovrebbe cominciare con Parebase.
         
Dal latino al volgare
È indubbio che l'Indovinello segna un punto di svolta cardinale nella trasformazione del latino in volgare. Cadute la maggior parte delle declinazioni latine originali, lo scritto ha già il sapore del dialetto locale. Molti studiosi l'hanno dunque collocato in un'età di mezzo, quasi parafrasando quello che dovette essere il Medioevo. Ma solo nel Placito capuano e negli altri Placiti cassinesi, che risalgono al 960-963 d.C., si rinviene una scrittura quasi del tutto libera da declinazioni e dalla sintassi latina. È però indiscutibile che i segni più vistosi della trasformazione del latino in volgare sono già ravvisabili nell'Indovinello.

Primo volgare o tardo latino?
Dopo un entusiasmo generale per il ritrovamento, i critici si sono divisi sull'ipotesi che affiderebbe a questo documento la nascita della lingua italiana. Responsabili di questi dubbi, avanzati già da Migliorini, sono i caratteri tardolatini che non mostrerebbero ancora un volgare "maturo" affrancato dalla vecchia lingua. Si pensi alla declinazione in -eba e in -aba, in cui la b non è ancora diventata v, al semen che è un nominativo/accusativo latino. Ciò che induce a guardare al volgare è la mancanza della -t finale nei verbi (si dice appunto pareva, arava ecc. in italiano), l'aggettivo negro (e non nigrum come vorrebbe il latino), in pratica già italianizzato per la -o finale e la trasformazione di i breve > e (é chiusa), mentre la -es di boves sarebbe da attribuire non direttamente al latino, bensì ad influenze ladine, data la collocazione geografica di Verona. Albo è precedente all'introduzione del Germ. blank > it. bianco fr. blanc ecc. nel mondo tardo-latino e può essere considerato un volgare molto arcaico. Notiamo ancora albo versorio in -o, come appunto vuole l'italiano ovvero il dialetto. Carlo Tagliavini, in Le origini delle lingue neolatine, ipotizza un'origine dotta con connotazione semivolgare, proveniente da ambienti scolastici ecclesiastici, nei quali gli alunni chierici utilizzavano come mezzo di comunicazione una lingua latina sgrammaticata e con molte incertezze lessicali. Ciò spiegherebbe perché nello stesso testo convivono latinismi e volgarismi. Arrigo Castellani, in I più antichi testi italiani: edizione e commento, ritiene anch'egli che il testo abbia un'origine dotta, ma che quella giunta sino a noi sia una testimonianza del latino medievale e non del volgare. Un altro studioso che avalla la tesi del semi-volgare è Vincenzo De Bartholomaeis. Giovanni Tamassia e Michele Scherillo, invece, ritengono che la lingua adoperata sia il latino volgare. Giulio Bertoni ipotizza che la lingua sia latino rustico, mentre Pio Rajna sostiene l'ipotesi dello schietto volgare.

Perché una lingua possa essere definita tale, deve essere presente nel parlante una chiara coscienza linguistica. Ciò significa che se il copista che ha scritto l'indovinello fosse stato cosciente del suo uso del volgare in contrapposizione alla lingua latina, l'attestazione potrebbe essere considerata senza ombra di dubbio volgare. Secondo alcuni studiosi, prova di questa coscienza linguistica sarebbe la benedizione in latino scritta a margine dell'indovinello, la quale dimostrerebbe come nello scrivente fosse chiara la diversità tra la lingua latina e il suo volgare. Alcuni paleografi, però, sostengono che la terza riga del codice contenente la benedizione sia stata scritta da altra mano e in epoca più tarda rispetto a quella dell'indovinello. Ciò farebbe, se non cadere, quanto meno traballare ogni ipotesi di coscienza linguistica del copista e di conseguenza l'indovinello si collocherebbe non tra le prime attestazioni dell'italiano volgare, ma tra quelle del tardo latino.

Soluzione dell'indovinello

Teneva davanti a sé i buoi
-le dita della mano.
arava bianchi prati
-le pagine bianche di un libro.
e aveva un bianco aratro
-la penna d'oca, con cui si era soliti scrivere.
e un nero seme seminava
-l'inchiostro, con cui si scrivono le parole.

Se ne deduce dunque che la soluzione finale dell'indovinello sia lo scrivano, nell'atto di iniziare il suo lavoro (i bianchi prati).

Analisi del testo
Questo testo fu scoperto nel 1924 in un codice di provenienza spagnola custodita nella Biblioteca Capitolare di Verona. L'autore dell' indovinello Veronese scritto tra la fine dell' VIII e inizio del IX secolo d. C. su una pergamena è stato probabilmente un amanuense veronese. Esso si riferisce all' atto del seminatore che con le dita (buoi) sparge sulla carta (campi bianchi) per mezzo della penna (aratro) l' inchiostro nero (seme nero). Si vuole sottolineare così l'importanza della scrittura, prima mezzo usato da un popolo per la conservazione e la trasmissione dei dati che contribuisce a manifestare la coltura di un popolo. Questo componimento scritto in volgare romanzo segna le trasformazioni del latino in volgare. Sul punto di vista fonetico e morfologico, si nota che mancano le consonanti finali, l'aggettivo NEGRO è discendente della forma latina NIGRUM. Mentre il volgare era influenzato dalle lingue locali parlate quotidianamente, il latino classico veniva parlato da una minoranza di persone. Infine esso rappresenta il primo testo della letteratura italiana scritto in prosa e testimonia la nascita della lingua volgare, inizialmente usato solo oralmente e di cui ci sono pochi testi scritti.

Citazioni letterarie
L'indovinello viene citato nel quarto romanzo di Umberto Eco, intitolato Baudolino ed ambientato tra il XII e il XIII secolo. L'eremita che, con scopi non interamente onorevoli, istruisce Baudolino lo cita in una forma semplificata - alba pratalia arabat et negrum semen seminabat - quando decide di insegnargli a scrivere[4].

Note
1.         ^ a b Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 52.
2.         ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 53.
3.         ^ Schiaparelli ne diede notizia nell'Archivio storico italiano, VII, 1 (1924), pagina 113.
4.         ^ Umberto Eco, Baudolino, Bompiani, 2000, pp. 526. ISBN 8845247368

Bibliografia
          Pio Rajna, Un Indovinello Volgare Scritto alla Fine del Secolo VIII o al Principio del IX, in Speculum, Vol. 3, No. 3 (luglio 1928), pp. 291–313.
          Angelo Monteverdi, Saggi neolatini, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1945
          Arrigo Castellani, I più antichi testi italiani: edizione e commento di Arrigo Castellani, Bologna, Patron, 1973
          Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana. Firenze, Sansoni, 1987.
          Francesco Bruni, Elementi di storia della lingua italiana: testi e documenti. UTET, 1984.
          Michele A. Cortelazzo e Ivano Paccagnella, "Il Veneto" in: L'italiano nelle regioni a cura di F.Bruni. UTET, 1997.
          Giudice, A. e Bruni, G. Problemi e scrittori della letteratura italiana. Torino, Paravia, 1973, vol.1.
          M.Gabriella Conti, L'Isola della pazienza. Roma, marzo 2005.
          Yves Cortez, Le français ne vient pas du latin. Paris, 2007.
          Claudio Marazzini, Breve storia della lingua italiana, ed. il Mulino, 2004, Bologna, ISBN 88-15-09438-5
          Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine: introduzione alla filologia italiana, Bologna, Patron Editore, 1982, pp. 524–527.
          Ferruccio Bravi, Antichi testi in volgare, Bolzano (Centro studi atesini) 1992.


Fonte: da Wikipedia




L’INDOVINELLO VERONESE

Note
 Il testo risale alla fine dell’VIII o al principio del IX secolo. È considerato il più antico documento del volgare italiano, ma alcuni studiosi dubitano che la lingua in esso utilizzata possa già definirsi “volgare”. Il testo – di non facile decifrazione – fu scritto da un copista veronese a margine di un codice liturgico, proveniente da Toledo, conservato nella Biblioteca Capitolare di Verona. Fu scoperto nel 1924.

1 Se…boves: Spingeva (pareba; il latino classico avrebbe avuto parabat) innanzi a sé (se, lat. class. sibi) i buoi (boves). Questa la traduzione più probabile del verso (il verbo “parare” ancora oggi, in Veneto, indica spingere in avanti e si usa con riferimento ai buoi aggiogati). Alcuni interpreti rendono però il “pareba” con assomigliava, appariva. Si è proposto anche di leggere “separeba”, con il significato di appaiava. Per la soluzione dell’indovinello rimandiamo all’analisi.
2 alba…araba: arava (araba, lat. class. arabat) i prati (pratalia) bianchi (alba).
3 albo…teneba: teneva (teneba, lat. class. tenebat) il bianco (albo, lat. class. album) aratro (versorio, lat. class. versorium).
4 negro…seminaba: seminava (seminaba, lat. class. seminabat) un nero (negro, lat. class. nigrum) seme (semen).
5 Gratias…Deus: Ti rendiamo (agimus) grazie, o Dio onnipotente eterno (sempiterne). Formula liturgica di ringraziamento, in corretto latino.

ANALISI DEL TESTO

L’indovinello costituisce una metafora della scrittura. I buoi rappresentano le dita; l’aratura richiama lo scorrere della mano avanti e indietro lungo il foglio; i bianchi prati che vengono arati sono le pergamene; il bianco aratro è una penna d’oca; il nero seme è l’inchiostro con cui si scrive. La comprensione della metafora – costruita facendo ricorso al lessico dell’agricoltura, e resa trasparente nel significato dall’opposizione tra “bianco” e “nero” – consente dunque di risolvere l’indovinello, indicando il soggetto di tutte le azioni nella mano che scrive.
Il testo appare interessante soprattutto dal punto di vista linguistico, come testimonianza della transizione – e coesistenza – tra latino classico e volgare, in un periodo databile tra l’VIII e il IX secolo.

Livello metrico

Metricamente il testo sembra ricalcare la struttura dell’esametro, il tradizionale verso della poesia classica latina. Tuttavia la trascrizione che abbiamo riportato non è l’unica possibile: alcune edizioni, infatti, propongono una diversa divisione in versi, meno vicina al modello del latino classico.



Livello lessicale, sintattico, stilistico

L’indovinello si divide in due parti linguisticamente ben distinte. Ai primi due versi corrisponde un testo caratterizzato da diversi elementi volgari, che si alternano però ad elementi latini genuini; l’ultimo verso è una formula liturgica di ringraziamento espressa in corretto latino.

La “volgarità” del testo è ben visibile a livello morfologico e fonetico:

- c’è in primo luogo da notare la caduta delle desinenze in -t della terza persona singolare dei verbi (il latino classico avrebbe avuto le forme “parabat”, “arabat”, “tenebat”, “seminabat”);

- è scomparsa la desinenza in -um dell’accusativo maschile e neutro, sostituita da una desinenza in -o (“albo”, “negro”).

- il dativo del pronome personale riflessivo, “sibi”, è sostituito da “se”;

- la i breve del latino “nigrum” si è trasformata in e;

- un verbo della prima coniugazione (“parabat”) è stato trasformato in verbo della seconda (come mostra la vocale “e” nella desinenza “pareba”).

Tuttavia, anche queste forme “volgari” presentano ancora tratti che appaiono tipicamente latini. Il più notevole è, nella desinenza dei tre imperfetti, la presenza della consonante b, non ancora evolutasi in v. Anche la t di “pratalia” non è propria del volgare. In Veneto, infatti, si aveva la forma “pradalia”.

Altre forme, invece, rimangono quelle del latino classico. Si mantiene pertanto l’uso delle consonanti finali -n ed -s in “semen” e in “boves”.
Il lessico utilizzato rimanda al mondo dell’agricoltura, ma questo non dimostra affatto una origine popolare del testo. Al contrario, la metafora dell’aratura era usata comunemente in altri indovinelli, scritti in latino, che circolavano nello stesso periodo. Alcuni termini sono tuttora attestati in ambito veneto: “versòr”, per indicare l’aratro, è ancora in uso nel dialetto veronese e di Venezia; “parare”, nel senso di spingere e con riferimento ai buoi, è un termine schiettamente agricolo, ancora presente in vari dialetti dell’area di Comacchio e veneta.



Livello tematico

È possibile – anche se si tratta di un’ipotesi non da tutti condivisa – che l’autore del testo fosse ben consapevole di questa contaminazione tra forme latine e forme volgari. Il testo sembra infatti presentarsi come uno “scherzo” ben formulato: una specie di cantilena in cui fondamentale è la contrapposizione tra il latino classico e il volgare. Un testo dotto, dunque, dietro il quale opera uno scriba. Non va dimenticato, del resto, che è proprio all’attività dello scriba che alludono le metafore su cui è costruito l’indovinello. E l’ultimo verso, in latino classico, sembra rappresentarne la “firma”: l’attestazione della sua capacità di esprimersi perfettamente nella lingua della cultura.


Fonte: Da Biblioteca on line

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