domenica 24 marzo 2013

PERCHÉ L’ETICA FRANCESCANA PREMIA IL MERCATO


Vita francescana.   Chiostro Chiesa di San Bernardino, Verona

Per la prima volta nella storia della Chiesa, un Papa ha scelto come nome pontificale quello di Francesco, in onore del santo di Assisi che scelse di spogliarsi dei suoi beni per condurre un’esistenza votata alla povertà.

Ma la figura di San Francesco, la sua concezione di vita e lo sviluppo della riflessione teologica francescana sono qualcosa di diverso e assai più complesso di quel che ci viene presentato da una pubblicistica spesso preconcetta e superficiale.  Francesco era figlio di mercanti e il pensiero francescano si sviluppò in territori di fiorenti commerci, come la Toscana medievale, grazie agli apporti di Bernardino da Siena e Antonino da Firenze, e la Linguadoca, regione del sud della Francia che aveva in Montpellier una città-mercato importantissima e nella cittadina di Narbonne il luogo di nascita di Jean Pierre d’Olivi (1248-1298), il più profondo pensatore economico francescano, la cui analisi giunge a conclusioni opposte a quelle di un pauperismo banale e conformista.

La povertà è il punto di partenza della riflessione teologica francescana sul problema del prezzo delle merci stabilito in base a regole che lo rendano moralmente accettabile.
Partendo dalla nozione di “mancanza”, intesa come privazione, Olivi valuta i beni economici, soffermandosi sulla differenza tra oggetti necessari e oggetti superflui, definendo perciò la povertà volontaria come una tecnica d’uso delle cose basata sulla conoscenza della loro specifica utilità. Basti pensare alla differenza tra le “cose necessarie subito” e le “cose necessarie adesso”: le prime, che possono essere necessarie anche in futuro, sono costituite da quegli oggetti di primaria importanza come il cibo, il vestiario o l’occorrente per la semina, mentre ciò che desideriamo adesso non sempre è per noi prioritario. Insomma, la riflessione sulla ricchezza parte da un’analisi dei modi di valutazione del necessario e del superfluo e il criterio dell’indigenza induce a concentrare lo sguardo sui bisogni soggettivi, piuttosto che sul modo di produzione dei beni atti a soddisfarli.
Il valore economico delle cose varia perciò a seconda di quanto esse siano ritenute necessarie o superflue, il che spinge Olivi a indicare appunto nella “mancanza” il principio in base al quale si assegna alle cose un prezzo, con l’autoprivazione che diventa perciò una scuola che insegna a misurare il bisogno e la necessità.
Riguardo al denaro, Olivi ne scorge l’utilità qualora non venga tesaurizzato e trattato come un oggetto utile di per sé, ma come il prezzo di qualcosa di utile, che finisce per allargare lo spettro delle relazioni sociali da rapporti fondati su conoscenze personali e sullo scambio di favori reciproci a rapporti di scambio fra persone tra loro estranee. Perciò, è la volontà di fare uso delle cose (e del denaro) per soddisfare necessità o desideri a rendere etici e socialmente sensati la ricchezza e lo scambio. E non sarà un caso, allora, se Olivi individuerà nei mercanti persone degne di trovare posto nell’universo etico francescano, scoprendo un po’ per volta la possibilità che hanno i ricchi di essere simili ai poveri di Cristo.

Nel “disordine” del mercato, dovere del mercante era quello di “attribuire” valori corretti e probabili alle cose nel momento in cui venivano scambiate. Infatti, solo chi, come i mercanti, possedeva conoscenze pratiche relative a circostanze di luogo e tempo nei vari mercati, inclusi quelli più lontani, era in grado di stabilire un prezzo che, seppur in maniera imperfetta, mettesse d’accordo acquirenti e venditori. Non così valeva (e vale) per i governi, che pur potendo fissare d’imperio i prezzi, non saranno mai in grado di farlo adeguatamente, perché privi di quelle conoscenze pratiche dei mercati, necessarie per prendere decisioni equilibrate. Per i francescani medievali, nel mercante c’è qualcosa di altamente virtuoso se non di eroicamente civico che ne fa un interlocutore privilegiato dei poveri in Cristo.

Il suo impegno indefesso, la sua abitudine a rischiare e la sua attitudine a valutare ne fanno il promotore della circolazione delle ricchezze utili alla società cristiana nel suo insieme. Il denaro connesso all’attività mercantile appare ai francescani assai diverso rispetto a quello dell’usuraio, che lo accumula al solo scopo di consumare e rivendere al fine di guadagnare di più oppure per bloccarlo cristallizzandolo in tesori improduttivi, lussi inutili e viveri superflui. Usuraio è chi accumula denaro bloccandone il movimento, è il creatore e il percettore di rendite parassitarie, mentre il mercante, con la sua attività che pure è orientata al profitto, arreca beneficio all’intera comunità.

Insomma, chi vede nel francescanesimo un marxismo ante-litteram non capisce che mentre Francesco e i suoi seguaci hanno sempre predicato la povertà vivendola sulla propria persona senza condannare l’altrui ricchezza, i marxisti hanno fatto l’esatto contrario demonizzando l’altrui ricchezza senza mai rinunciare ai propri agi.  Se un po’ di francescanesimo non potrà che far bene a un mondo che deve riacquistare equilibrio e sobrietà, la sua vulgata marxista rischia di estendere all’umanità intera le conseguenze nefaste che la Teologia della Liberazione ha riversato sull’America Latina.  Un inferno che Papa Francesco ben conosce.

(La Voce di Romagna, 16/3/2013)




Fonte: visto su,  Carlo Zucchi Blog,  del  16 marzo 2013


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