giovedì 17 aprile 2014

VENETISMO, PADANISMO, INDIPENDENTISMO: O SI COGLIE L’ATTIMO O MEGLIO CHIUDERLA LÌ



Alcuni recentissimi sondaggi Swg dicono che il 47% degli abitanti del NordOvest è favorevole all’indipendenza, che la percentuale raggiunge il 50%  nel NordEst. Non è una novità.

Nel gennaio del 1996 la rivista Limes aveva pubblicato un’inchiesta di Ilvo Diamanti sulla percezione e gradimento dell’idea di indipendenza padana. Ne risultava che per il 36,5% dei padani l’indipendenza era “un’ipotesi inaccettabile”, per l’8,5% “una via che porterebbe al disastro”, per il 30,7%  “una prospettiva vantaggiosa sul piano concreto, ma inaccettabile” e per il 24,4% “una prospettiva vantaggiosa ed auspicabile”.  

l dicembre dello stesso anno, il commento a una analoga inchiesta di  Poster-Limes era significativo: “L’indipendenza, nonchè rifiutata in quanto prospettiva istituzionale, sia comunque considerata da ampi settori sociali come un’ipotesi vantaggiosa sul piano concreto. Poco più del 50% degli intervistati ritiene che se il Nord fosse uno Stato indipendente le cose andrebbero meglio per quel che riguarda l’economia, in primo luogo, quindi per l’occupazione e i servizi pubblici. Una quota di poco più limitata ritiene che ne trarrebbero beneficio anche il modo di vita e la condizione sociale”.

Nel 2005 un sondaggio Demos-Banca Intesa sul senso di appartenenza dava i seguenti risultati: alla domanda “A quale delle seguenti aree sente di appartenere maggiormente?”, il 15,4% rispondeva alla sua città, il 13% alla regione, il 16,9% alla macroregione (Nord, Centro, Sud), il 26,4% all’Italia, il 7,8% all’Europa e il 19% (di “originali”) al mondo intero. La risposta localista complessiva arrivava al 45,3%, il doppio di quella italianista.

Nella primavera del 2006 si è tenuto il referendum sulla cosiddetta Devolution che è stato stravinto a livello nazionale dai contrari. Un esame più sereno sulla vicenda rivela però che: nonostante la sgangheratezza del progetto di riforma (in realtà più centralista che federalista), esso (ovvero l’illusione federalista) aveva vinto in 22 province padane su 46, in altre 10 aveva superato il 40%; in tutta la Padania aveva preso il 47,4% nonostante (o forse perché) il progetto fosse stato dipinto come “secessionista”, che nelle regioni rosse molta gente avesse votato per fedeltà di partito e che una larga fetta di padanisti “duri e puri” avesse votato contro o si fosse astenuta perché il progetto non era percepito come sufficientemente indipendentista.

Nel 2010 un sondaggio Swg-AffariItaliani diceva che il 61% dei settentrionali vedeva con favore l’indipendenza della Padania.

Nel marzo 2014 è Demos ad affermare che il 55% dei veneti sia favorevole all’indipendenza.

Davanti a questi dati (che vanno presi con la giusta cautela, nel senso che non tutti gli intervistati sono ancora convinti che esprimere una pulsione indipendentista sia “politicamente corretto”: è probabile che nel segreto dell’urna i numeri sarebbero anche più alti) viene da fare alcune considerazioni.

La prima è: “perché di fronte a questa domanda di libertà non esiste una offerta politica adeguata?”, ovvero “perché la Lega Nord non ha trasformato queste opinioni in consenso politico?”. E ancora: “perché davanti al fallimento leghista nessun altro attore politico l’ha sostituita?”, oppure “Perché nessun altro movimento indipendentista riesce a soddisfare le richieste così chiaramente espresse?”

Ci sono due generi di risposte. Perché lo Stato italiano dispone di strumenti di distrazione, di dissuasione e di corruzione straordinari. Li esercita nella scuola, nella propaganda, con tutti i possibili mezzi di disinformazione di massa, ma anche attraverso la repressione poliziesca e la minaccia giudiziaria (i fatti di questi giorni ne sono una prova) e corrompendo chi dovrebbe rappresentare le istanze indipendentiste. Troppi leghisti (ma non solo loro) si sono fatti irretire da stipendi, potere, vanagloria, cadreghe e medagliette. C’è chi lo ha fatto volentieri (voleva solo quello) e chi ha ceduto per debolezza, ma la maggioranza c’è cascata per ignoranza, inadeguatezza e scarsa convinzione. È lo scotto che si paga a mandare nelle istituzioni gente raffazzonata, senza preparazione, senza solide radici culturali, magari selezionata solo sulla base dell’efficienza delle mucose linguali esercitata nei confronti del lato B o del lato A, a seconda delle circostanze, dei generi e delle singole vocazioni. Che la Lega non si sia mai molto sforzata nell’opera di informazione, propaganda o diffusione culturale è cosa fin troppo nota e su cui è inutile soffermarsi ulteriormente, ma il tempo, le occasioni e i Segretari passano e nulla cambia.

La disperazione cresce se si va a vedere il mondo che dovrebbe essere alternativo e sostitutivo della Lega: una voragine di litigiose nullità che fanno frenetica concorrenza agli uomini del Carroccio in fatto di idiosincrasia per la cultura e per la “pacata” capacità di argomentazione ideologica.

Che appeal di consenso possono avere buontemponi che agitano pesci in Parlamento o che blindano ruspe?

Serve sempre più urgentemente un riferimento serio per un mondo che aspira alla libertà e all’indipendenza. Noi su questo piccolo e povero giornale (che ha un bilancio inferiore a due mesate di qualche svaporato zerbinotto eletto a Roma o in un Consiglio regionale) ci proviamo con passione ma i risultati – a giudicare dagli interventi di tanti sezionatori di capello o di psicopatici della tastiera – sono scoraggianti. Anche più desolante è il quadro rappresentato da tutti i micropatrioti, regionalisti, municipalisti, che aspirano a indipendenze sempre più circoscritte e rapportate alla loro incapacità di raffrontarsi con gli altri.

Ne sono testimonianza anche gli attivissimi venetisti che temono i lombardi più del demonio, che sarebbero pronti a perdere un occhio pur di non avere nulla a che spartire con Milano (vecchia, bimillenaria malattia…), che preferiscono restare schiavi di Roma piuttosto che affrontare progetti che non abbiano  la becera semplicità di un riferimento storico da figurina Lavazza. Come spiegano che l’ultimo sondaggio citato – quello del 55% di veneti favorevoli all’indipendenza – dice anche che il 43% degli intervistati  vorrebbe l’indipendenza del Nord, e cioè della Padania? La stragrande maggioranza dei secessionisti si rende perfettamente conto della necessità di articolare il progetto in una visione più organica e realistica.  La Lega ha preso il 35% dei voti veneti, i venetisti esclusivisti viaggiano attorno a briciole rancorose.  Che la Lega abbia buttato via quei consensi o che non sia riuscita ad avere quelli di tutti gli indipendentisti (il 55% che – fatta la tara dell’astensione – potrebbe significare il 70-75% del voto espresso) per soddisfare una aspirazione di libertà fortemente condivisa, è l’altra triste faccia della medaglia.

Cosa c’è che non va nel venetismo, ma anche negli altri indipendentismi regionali e nello stesso padanismo?  Non è un problema di polizia, di Codice Rocco e neppure – si spera – psicanalitico: è un problema di cultura, ragionevolezza  e maturità.  Davanti – dicono i sondaggi – c’è un’autostrada in discesa  ma non si riesce a percorrere un metro. Se non si riesce adesso a mettere assieme quel che di buono c’è rimasto nella Lega e nei movimentini con la pacata ma forte voglia di libertà della nostra gente, allora è meglio chiuderla lì e rassegnarci a morire italiani.


Fonte: srs di Gilberto Oneto,  da l’Indipendenza del 16 aprile 2014.


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