martedì 8 luglio 2014

PAPA BIANCO E NERO

La collegialità, mito progressista, va bene, ma Bergoglio poi decide da solo. Stile gesuita e governo



Ben vengano la collegialità episcopale e la sinodalità, ma quando si tratta di assegnare prelati a qualche ufficio curiale di peso o di nominare vescovi in sedi rimaste vacanti, a decidere è il Papa.
Senza consultazioni né dossier. E’ stato così per Buenos Aires, dove Bergoglio ha mandato come suo successore Mario Aurelio Poli, il vescovo di Santa Rosa della Pampa che non compariva nella lista al vaglio della Congregazione che sovrintende all’episcopato mondiale. Copione che si è ripetuto identico qualche giorno fa, quando monsignor Battista Ricca (diplomatico e direttore della Casa di Santa Marta) è stato nominato nuovo prelato dello Ior. Una decisione presa dalla commissione cardinalizia di vigilanza dell’Istituto, ma che “è stata approvata” personalmente dal Papa. In entrambi i casi, Francesco ha scelto persone che conosceva e di cui si fidava. E anche quando si è trattato di selezionare i membri del gruppo che lo aiuterà a governare la chiesa universale e a riformare la curia, Bergoglio ha fatto di testa sua: otto cardinali, uno per area geografica, chiamati a rispondere soltanto a lui. Nessun presidente, ma solo un coordinatore, un primus inter pares scelto nella persona del fidatissimo cardinale Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, salesiano honduregno in prima fila nelle battaglie sociali.



“Il Papa resta un monarca assoluto”
Se avesse seguito i suggerimenti emersi nelle congregazioni del pre Conclave, ha scritto recentemente il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, “il consiglio della corona l’avrebbe trovato già bell’e pronto. Gli sarebbe bastato chiamare attorno a sé i dodici cardinali, tre per continente, eletti al termine di ogni sinodo”. Certo, spiega al Foglio lo storico del cristianesimo Giovanni Filoramo, docente all’Università di Torino, “l’apertura collegiale che si coglie dall’istituzione di quella commissione è senz’altro una novità. Ma il Papa rimane sempre un monarca assoluto che non deve rendere conto a nessuno. Non può abdicare a decisioni che dipendono solo da lui. E’ indubbio come ci siano questioni che richiedono una decisione esclusiva, altrimenti si rischia l’ingovernabilità”. Alberto Melloni, erede di Giuseppe Alberigo ed esponente di punta della Scuola di Bologna, auspicava nelle settimane successive alla rinuncia di Benedetto XVI l’attuazione di ciò che gli ultimi papi non avevano mai fatto: la collegialità sancita dal Concilio. Non un monarca, ma il motore della comunione ecclesiastica, diceva Melloni. Ma decidere collegialmente le nomine particolari e locali, nota Filoramo, sarebbe complicato.

Lo storico dell’Università di Torino non vede inoltre alcun contrasto tra l’aspirazione collegiale più volte manifestata da Francesco e il suo decidere in solitudine, consultando solo pochi amici fidati. Piuttosto, si domanda, “non è che questo stile di governo rispecchia i due aspetti tipici del modello tradizionale gesuita?”. D’altronde, aggiunge, “la Società di Gesù è diventata un ordine cattolico a livello universale attraverso una politica centralizzatrice unita alla messa in pratica di una certa collegialità. I gesuiti sono un ordine politico, sono celebri per la capacità di adattarsi alle situazioni culturali tra loro più distanti”. E Bergoglio potrebbe trasporre su scala universale il modello ignaziano: “La Società è un’esperienza di gestione del potere accentrato, sul modello del Papato. Va detto però – continua Filoramo – che l’elemento collegiale è sempre stato presente. Basti pensare al ruolo dei Padri generali: potenti ma consapevoli della necessità di dare autonomia, perché non si può governare solo dal centro”.

Più cauto è in questo senso il professor Daniele Menozzi, ordinario di Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa: “Il suo essere gesuita più che nello stile di governo lo si vede sotto il profilo spirituale. E’ una spiritualità che ha segnato profondamente tutta la chiesa, in particolare quella contemporanea. L’elemento interessante – sottolinea Menozzi – è il fatto che Bergoglio ne dà un’interpretazione tutta sua, come sulla povertà. Lui insiste sul volere una chiesa per i poveri, mentre in passato nella Compagnia c’erano stati settori che evocavano una chiesa dei poveri”. 
Per quanto attiene le linee effettive di governo, dice al Foglio lo storico autore di numerosi libri sulla chiesa contemporanea, “bisogna attendere. Bergoglio sta ancora cercando di capire l’ambiente in cui si muove, le dinamiche che deveo affrontare. Si può già dire, però, che il Papa agisce su due livelli: per quanto riguarda le scelte che è chiamato a compiere tempestivamente, è inevitabile che si assuma la responsabilità diretta, senza consultare l’episcopato locale. Ci sono poi, però, gli aspetti che attengono al governo della chiesa universale. E qui Francesco ha già dimostrato di voler tenere conto delle indicazioni che gli giungeranno dall’insieme della chiesa” per procedere alla riforma  della curia che ha in mente.


Fonte: srs di Matteo Matzuzzi, dal Il  Foglio  del  20 giugno 2013


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