venerdì 5 settembre 2014

LA TRADIZIONE DEL FURTO DELLA SPOSA: UNA LETTURA MULTIDISCIPLINARE



Nicolas Poussin, Il ratto delle Sabine



A. NORSA – A. BRUGNOLI –  F. CORTELLAZZO  – G. MORTARO – A. RIDOLFI



1. INTRODUZIONE

Il “furto della sposa”, consolidata tradizione presente in tutte le vallate ladine, è un rito che i giovani del paese, invitati alle nozze, compiono il giorno stesso, abitualmente dopo la  celebrazione del matrimonio. Il rituale si ritrova, con similitudini e differenze, oltre le catene montuose anche in altri luoghi più o meno distanti, di diverse culture e religioni e affonda le sue radici  nella  notte  dei  tempi,  laddove  si  perdono  le  documentazioni  ed iniziano le interpretazioni.

Il presente lavoro è la sintesi di cinque diverse prospettive inerenti il tema proposto, frutto di altrettanti professionisti della Frazer Association for Anthropological Research, associazione che da alcuni anni è impegnata nell’indagine e raccolta di testimonianze nel settore etnoantropologico, competenti in diverse discipline: antropologia, medicina e psicologia, religione, storia ed educazione.

Il contributo sarà quindi introdotto da una disamina del rito nelle vallate ladine, continuerà con una lettura dal punto di vista antropologico-sociale, per rintracciare poi una continuità con i testi classici, evidenziandone significative presenze anche nei sacri testi della fede cristiana ed infine con la presenza, più o meno manifesta o mascherata dal simbolo, nel mondo delle fiabe.
Faranno da cornice al lavoro i concetti di esogamia ed endogamia, legami costanti dei diversi contributi.



ALESSANDRO NORSA

2. IL RATTO DELLA SPOSA  NELLE VALLATE  LADINE.

È Pierina de Jàn in Usanze de noze da n zacan (Usi e costumi di nozze di una volta) che narra come avveniva un tempo nel  Fodom  il ratto della sposa: Durante la festa ed il coinvolgimento degli invitati nel ballo la sposa veniva rapita.  I menagli - che avevano il compito di sorvegliare la sposa durante la giornata -, preoccupati, si mettevano subito alla sua ricerca. I rapitori erano gli  amici  dello  sposo  che  approfittando  di  un  momento  di  distrazione generale  portavano  la  sposa  in  qualche  altra  locanda.   Se  i  giovani rimanevano in un’osteria del paese i menagli facevano presto a ritrovarla.

Una volta scoperti, i rapitori venivano condotti nuovamente alla sala da pranzo dove c’erano gli altri convitati, e veniva fatto loro un processo (era chiaramente una farsa). Successivamente i condottieri, come pena della loro distrazione, dovevano pagare gli osti dai quali i rapitori si erano fermati a bere. In assenza della sposa, la festa si fermava e tutti rimanevano in attesa del suo ritorno. Al rientro del gruppo la musica tornava a suonare fino all’imbrunire. Poi tutti si apprestavano ad accompagnare gli sposi a casa dove li aspettava ancora una sorpresa”. (285)

Nel racconto dell’informatore  di Bulla [L. W. classe 1933] in Val Gardena, alla tradizione del furto della sposa seguiva, il giorno successivo, l’obbligo, il mëinanevicia, che un tempo era sempre il non da batejé (padrino di battesimo), di saldare il conto nelle diverse osterie dove il gruppetto di festanti amici si era fermato a bere il giorno precedente.(286)

In Valle Badia il testimone di nozze era tenuto a mercanteggiare il riscatto per il rilascio (in verità il più delle volte si limitava a pagare da bere), per poter riportare la sequestrata allo sposo. I “rapitori” venivano poi incatenati e dovevano sottoporsi ad una processo.(287)

A Colle Santa Lucia Franz COLLESELLI, nel 1956, afferma che vi era un’usanza affine:

All’apertura delle danze, nonostante l’attenzione più viva del compare dello sposo, la sposa veniva rapita.

Di seguito si iniziava la sua ricerca; quando il fuggitivo veniva ritrovato, veniva riportato incatenato con la rapita  al  cospetto  dei  commensali.  Quindi  veniva  fatto  il  cosiddetto “processo al ladro” in cui gli ospiti pronunciavano la sentenza. Solitamente la “condanna” del ladro consisteva in una condanna, imprevedibile, buffa e spassosa  secondo  l’estro  di  chi  è  stato  scelto  come  giudice,  come  ad esempio nel ballare un valzer con la sposa, legato mani e piedi con pesanti catene.(288)

Luigia Lezùo aggiunge che il rapimento della nuicia, nella stessa località, era considerato una dimostrazione di stima verso la stessa, pertanto era un privilegio riservato solo a poche e scelte spose. Pertanto anche i rapitori ricevevano la mancia dai suoi accompagnatori.(289)

In un lavoro di recupero della memoria delle usanze matrimoniali di un tempo della Val di Fassa, pubblicate in un volume edito dall’Union di Ladins de Fascia dal titolo Sposc e maridoc, Tita de Mègna di Canazei (G. Battista Costa, 1884-1968) riferisce che mentre gli sbandieratori si susseguivano, c’era l’usanza che il bufòn rapisse la sposa. La portava in una casa dove le davano qualcosa di caldo da mangiare. Non succedeva niente di male, ma lo sposo doveva andare a cercare la sposa, perché al posto della bella sposina, dopo che aveva finito di menèr la Bandiera trovava una bambola di pezza, seduta su una sedia. Se lo sposo era attento, mentre sventolava la bandiera guardava bene dove il bufòn la portava.

Gianfranco VALENTINI, nel 1971, in una narrazione romanzesca, aggiunge che “anche le altre camarìtes a turno venivano rapite dai quattro camarìt allontanandosi dal resto del gruppo per qualche istante fintantoché lo spettacolo degli sbandieratori non era concluso. Successivamente il corteo si ricomponeva  per  recarsi  a  casa  dello  sposo  per  il  pranzo”.(290)   

Quello descritto dal Gianfranco  VALENTINI  potrebbe essere un lacerto, oramai corrotto, di una più antica tradizione citata dal Felice VALENTINI nel 1885, in Usi e costumi della Val di Fassa in cui si legge che “buffoni gironzano attorno alle camarites, le smorfiano e le seccano; l’astuto Arlecchino corteggia la sposa e tenta di soppiatto involarla allo sposo; e guai se essa od un camarita smarrite da tanta confusione si lasciassero pigliare da uno di loro, le risa e le beffe generali sarebbero infinite”.(291)

Per ciò  che  riguarda  l’argomento  in Cortina  d’Ampezzo,  nel 1849 J.P. KALTENBAECK  scriveva: “Durante il pranzo, spesso irrompevano amici o vicini non invitati, armati di spade, che rapivano la sposa e la portavano a cavallo in chiesa o all’osteria e dopo qualche ora la riportavano in dietro”. (292)
Osservazioni dello scrivente, confermano che l’usanza in questa località è ancora in essere.



ANGELICO BRUGNOLI

3.  IL  FURTO  RITUALE    DELLA  RAGAZZA  DA  MARITO    DAL  PUNTO  DI  VISTA

Antropologico-Sociale.

Per non dare adito a diversi tipi di interpretazione, forniamo un chiarimento sulla definizione del rito, almeno come viene concepito nei nostri studi.

Riti e miti

Con il termine rito o anche tipo di rituale intendiamo dunque ogni atteggiamento o comportamento o anche il loro insieme, quando viene eseguito presso popoli diversi e lontani tra di loro, secondo norme definite, unificate e codificate nel corso di tempi, a volte molto lunghi. Pertanto, in questo caso, il rituale abbraccia un arco di tempo che coinvolge sicuramente molte generazioni e molti secoli.

Di norma i riti e i rituali sono intimamente connessi a una religione, con un comportamento che alla base parte proprio da principi di natura religiosa e osservante determinate regole, dalle quali non è possibile uscire.

Il mito invece si localizza sempre nella sfera del sacro, in quel mondo caratterizzato da una sensibilizzazione a fatti forse realmente accaduti in un passato più o meno lontano e poi portati avanti nel tempo con ricordi associati a invenzioni, immaginazioni e fantasie. Ricordi e fantasie che più tardi sono divenuti riti. Qualche autore, infatti, sostiene che sia proprio il rituale che riassume, riprende e sintetizza il mito che altrimenti potrebbe essere perduto o affondato nell’inconscio collettivo(293).

Furto rituale della ragazza.

Non è molto semplice recuperare nelle tradizioni religiose pratiche di furto rituale della ragazza o della sposa, in modo particolare prima del matrimonio oppure a scopo di matrimonio. In questo ambito specifico di norma le tradizioni si rivelano quasi sempre di natura locale, molto probabilmente perché gli antropologi se ne sono interessati ben poco nelle loro ricerche, almeno per quanto riguarda il secolo scorso.

Al di fuori, nel grande pubblico, di qualsiasi religione si tratti, il fatto di per se stesso non stimola interessi sociali estesi e pertanto, pur se conosciuti e condivisi, non fanno mai parte di un bagaglio culturale che affonda le sue radici nell’inconscio collettivo alla Jung(294).

Se vogliamo essere più precisi in merito al furto rituale della ragazza da marito, più che della sposa, possiamo esaminarne le radici nei rituali animici, specie delle regioni africane e della santeria cubana.

Accenni  a questo si trovano  più  che  altro  nelle  regioni animiche dell’Africa Nord- occidentale, ove si possono reperire dei riferimenti o allusioni a delle pratiche che nella realtà sembrerebbero così diffuse da  essere  addirittura  osservate  e  studiate  come  facenti  parte  delle  pratiche usuali e pertanto vissute entro la più completa normalità.  

L’animismo viene considerato infatti la “Madre” delle religioni per il fatto che gli antropologi classificano tipologie di religioni o pratiche di culto, dove le qualità divine e soprannaturali sono attribuite a cose, esseri materiali o luoghi.
L’animismo non identifica la divinità in un essere trascendente ma attribuisce lo spirito a realtà materiali.

Il matrimonio nelle società primitive

Endogamia ed esogamia rappresentano le principali regole matrimoniali presenti  nelle  società  primitive. 
Per  endogamia  si  intende  l’obbligo  di sposarsi all’interno di una determinata unità sociale, generalmente la tribú nella quale si è nati e si vive.
Per esogamia si intende invece l’obbligo di sposarsi al di fuori di una determinata unità sociale, in genere la banda, specie fra i cacciatori e i raccoglitori, oppure il clan, specie tra gli orticoltori e nelle prime società agricole.
Per questo motivo endogamia ed esogamia in genere coesistono e individuano nel loro insieme i matrimoni permessi e anzi favoriti, e i matrimoni proibiti. All’esogamia si ricollega anche il tabù dell’incesto, che concerne non solo i matrimoni ma anche i rapporti sessuali, e trova applicazione al livello stesso delle unità familiari.

Sigmund FREUD ha avanzato una spiegazione psicologica, ipotizzando nelle regole di esogamia l’estensione del tabù dell’incesto (295).   
Claude LÈVI- STRAUSS, con una spiegazione di tipo sociologico, ha sottolineato piuttosto l’estensione della solidarietà sociale derivante dallo scambio esogamico(296).
Robin FOX  ha ricollegato, in chiave etologica, tabú dell’incesto e regole dell’esogamia allo scopo di evitare l’inbreeding (incrocio all’interno di gruppi ristretti) già presente fra i primati superiori (in particolare i gibboni e gli scimpanzé).(297)

Riti di iniziazione.

Il matrimonio doveva essere consenziente, poteva esserci un accordo tra la famiglia di lei e quella dello sposo, oppure si poteva fuggire mettendo entrambe le famiglie di fronte al fatto compiuto o ancora, in casi estremi, la donna veniva rapita direttamente, senza perdere tempo.

Il rapimento della donna giovane era importante soprattutto se la donna era consenziente, specie se riferiva di essere rimasta incinta. Anche se spesso si creavano chiacchiere e “inciuci”, non appena la sposa rimaneva incinta, tutto  si  metteva  a  tacere.  Una  madre  conquistava  automaticamente  il massimo del rispetto collettivo. Tutto ciò, ad ogni modo, è sempre successo, non solamente presso le società tribali, ma di norma presso tutte le società, addirittura  anche  presso  quelle  convivenze  umane  che  sembrano  più evolute.

Il rito del matrimonio in Kenia presso i Kikuyu.

Per fare un esempio di tradizioni tribali, ecco uno spunto sui Kikuyu o Gikuyu, nomi trascritti anche come Kikuyu o Gikuyu, che sono il gruppo etnico più numeroso del Kenya. Parlano la lingua gikuyu o kikuyu.

Il loro territorio tradizionale è il fertile altopiano centrale del Kenya, che essi coltivano. Un loro rito in età adulta è ciò che mettono in atto per preparare il matrimonio. Le ragazze in età da marito indossano i loro gioielli migliori, e il pretendente si presenta alla famiglia con una frase convenzionale: “Non mi chiedete cosa mi ha portato a farvi visita?”.

Segue un periodo di trattativa per stabilire l’ammontare della dote che la famiglia  dello  sposo  verserà  alla  madre  della  sposa.  Il  matrimonio  è preceduto da un “rapimento”, rituale della sposa da parte delle donne della famiglia dello sposo, che portano la ragazza nella capanna dello sposo, fra canti e danze. Quando i due novelli sposi escono dalla capanna, la moglie prende dal fuoco una spalla di capra arrostita e pronuncia un’altra frase rituale: “Anche quando non sarai in grado di provvedere al tuo stesso cibo, resterò al tuo fianco”.

Le donne del clan della sposa ripetono lo stesso gesto rivolgendosi ai parenti  maschi  dello  sposo,  dicendo:  “Siamo  ormai  parenti”.  La  sposa quindi versa del latte fermentato detto ucciorro allo sposo, e dice: “D’ora in poi sarò io a ubriacarti”. Lo sciamano (mondomogo) conclude la cerimonia invocando gli spiriti.

Da “Il filò dei tempi andati” di Piero PIAZZOLA  ecco un’osservazione interessante  e stimolante per questo lavoro. (298)

Quando i genitori di lui, del futuro sposo, vengono a capire che ormai non c’è più niente da fare per distoglierlo dal matrimonio con quella… e che ormai è lei e non un’altra la ragazza che ha scelto, ma che, purtroppo, quella non ha una solida scorta di mezzi e di denaro, cominciano a mettere i pali tra le ruote … allo sposo, al figlio. Allora si verificava — torniamo a un tempo passato, perché oggi questa circostanza non si ripete più con quelle ritualità di una volta — la fuga.  Il promesso sposo organizzava di notte il rapimento della ragazza, d’accordo con la fidanzata e con un paio di amici fidati e l’appoggio di una famiglia “allineata”, si direbbe oggi, per ospitare temporaneamente la fidanzata.

La ragazza veniva  portata a casa di uno dei due amici e affidata alla mamma di lui.  E vi rimaneva finché le cose non prendevano una piega diversa.  Il  più  delle  volte  cedevano  i  genitori  del  ragazzo  e  allora  lo sposalizio, in una forma meno importante e col muso longo, si celebrava. Se i suoi genitori, invece, s’intestardivano, la situazione peggiorava. La nuova famiglia peraltro partiva ugualmente.

Il parroco del mio paese, nel 1867 trascrisse un documento di denuncia, da parte di Antonio P. fu Gio Batta, di un avvenuto rapimento di una certa Angela S., che aveva già data la sua adesione alla pubblicazione delle nozze con un certo Cristiano T. di Marco, presenti  i  testimoni  e  “compari”  del  ragazzo.  Antonio  fece  mettere  al parroco per iscritto quanto segue: «Voi sarete testimoni che io in questa notte ò levata Angela S. fu Antonio e depositata in una famiglia di qua, intendendo con questo che sieno fermate le pubblicazioni incominciate tra la stessa e Cristiano T. fu Marco…». Nelle pagine del registro dei matrimoni che seguono apprendiamo che l’Angela di lì a poco passò a nozze proprio con l’Antonio P. che l’aveva rapita.

Probabilmente, in precedenza, essa aveva accettato di far le pubblicazioni con il Cristiano, pur di sottrarsi a una vita di violenze e di servilismo in casa sua. Presentatasi la soluzione che le avrebbe permesso di avere una vita più dignitosa in una famiglia più educata, aveva giudicato liberatorio il rapimento. Lei aveva 22 anni; Antonio, invece, 27.



FRANCESCO CORTELLAZZO

4. IL FURTO DELLA SPOSA NEL MONDO CLASSICO

Potrebbe essere interessante rilevare come il nome stesso, se non proprio il concetto di Europa, nasca da un rapimento; per potersi unire a questa ninfa bellissima, Zeus si trasforma in toro e la porta dall’altra parte dell’Ellesponto, quasi a sancire al tempo stesso, pur con un atto di unione, una sorta di frattura tra Asia ed Europa, una sorta di furto nei confronti di quest’ultima terra, (che per altro i Greci percepivano un po’ come la loro madre) appunto nel contesto della koinè mediterranea. Non è questo il solo rapimento che interessa una donna e che si svolge nello stesso  contesto  geografico.  È  Paride  che  rapisce  Elena  per  portarla,  in questo caso, da Sparta sulle sponde della Troade.

Impostati sull’asse est/ovest, questi rapimenti, (che per alcuni vanno collegati anche a spostamenti migratori e alle colonizzazioni micenee del XIV   sec.  a.299),   si  ricollegano,   per   altro,   ad   altri   celebri   rapimenti  nell’antichità  che  hanno  coinvolto  le  donne.  ERODOTO,  anzi, razionalizzando i miti, vede nei reciproci rapimenti aventi oggetto donne, vale a dire Io, Europa, Elena e Medea nell’ordine, l’origine delle rivalità tra Greci e Persiani.(300)

L’archetipo può considerarsi il rapimento di Persefone (nome di etimo incerto,  forse  dal  sanscrito  parsa-phana =  splendente  di  luce?),  la Proserpina dei latini, figlia di Demetra (=Terra Madre, così almeno interpretavano i Greci).  Studi relativamente recenti, però, evidenzierebbero che tale parentela non sembri esser stata originale, ma posteriore, da collegarsi con l’affermarsi (comunque assai antico) dei riti eleusini (301).

Le fonti più antiche di questo mito sono ESIODO (per la precisione un verso nella Theogonia, v. 910) e il secondo degli Inni omerici dedicato a Demetra, legato giustappunto ad Eleusi.

Al suo rapimento da parte di Ade/Plutone, dio degli inferi e delle viscere della terra, e al suo ritorno presso la madre in primavera ed estate, secondo quanto stabilito da Giove, intervenuto a placare l’ira ed il dolore di Cerere, si  è soliti collegare l’eziologia del ciclo delle stagioni. Questo era un mito che definisce al tempo stesso il valore del matrimonio (sei  mesi a fianco dello sposo), la fertilità  della Natura  (risveglio  primaverile), della famiglia nel suo insieme (il ritorno fecondo presso la madre, la fertilità coltivata  nell’ambito  domestico),  vista  anche  come  possesso  della  dona come  garanzia  che  rinsalda  il  legame  (a  tal  uopo  potrebbe  essere interessante ricordare come anche il decimo comandamento presente nelle Tavole della Legge, il Decalogo, separi il possesso della donna da quello degli altri beni ad evidenziare il ruolo specifico del possesso della donna); e ancora  la rinascita e il rinnovarsi delle stagioni e della vita dopo la morte, motivi questi che rendevano la dea Proserpina (= da prosperare? Comunque presso i latini era nota anche col nome di Libera =  figlia, cfr. Kore = fanciulla  in greco) presso i romani particolarmente popolare e venerata. (302)

Alla luce di queste brevi considerazioni, è dunque evidente il concetto della donna come “merce di scambio”, sia pure di particolare valore. Di un qual  certo  interesse,  sempre  a  proposito  di  Persefone/Proserpina,  la versione di Claudiano (303), che vede Proserpina quasi come risarcimento per avere il più tetro dei regni e con gli elementi ctonii pronti per la rivolta per seguire il proprio re (= il disordine della natura?); è superfluo evidenziare come sarebbe importante sapere se ci si trovi di fronte ad elaborazione poetica personale o comunque derivata da fonte recente, di mero effetto poetico, oppure se l’autore greco-romano dell’età tarda riprenda idee o fonti arcaiche a noi non pervenute(304).

A placare e a fare da mediatrici tra Ade e Cerere intervengono le Furie, le greche Erinni, dee del buio e spettri dei delitti commessi contro il proprio sangue. Complice del rapimento, e questo già nella versione più antica, è Venere, dea dell’amore e della fertilità (come del resto Cerere stessa e sua madre Cibele). Demetra/Cerere si vendica col bloccare la fertilità. Zeus deve obbligare il fratello a lasciare tornare sulla terra Persefone, cui dà però dei semi di melograno (simbolo di fecondità e anche del vincolo nuziale?) per obbligarla a tornare presso di sé.(305)

Due sono gli aspetti di natura ancora controversa da tenere presenti: in primo luogo gli è vero che Persefone era celebrata, in Sicilia, in autunno al tempo della semina e l’estate, stagione in cui non c’è il grano, sarebbe stata considerata la stagione in cui la dea era negli inferi con Plutone (del resto la fanciulla è rapita in primavera, mentre raccoglie i fiori di tale stagione). In autunno, al tempo appunto della semina, veniva celebrata la riunione tra madre e figlia.(306)

In secondo luogo, il rapporto tra Persefone e Demetra non parrebbe essere originario (è assente ad esempio in Omero), potrebbe essere rielaborazione appunto eleusina, ma la situazione è ancora controversa.

Per altro, nel mondo greco solo i miti ricordano in maniera significativa il rapimento della donna; solamente a Sparta si era conservata la memoria del  furto  -  si  direbbe  rituale  -  della  sposa.  PLUTARCO   ci  dice  che  il matrimonio  accadeva  per  rapimento.  Nella  Vita  di  Licurgo,  110,  dice esplicitamente:  “Ἐγάμουν  δὲ 
δι´ 
ἁρπαγῆς,”.  (307)  

Conferme  a  tali  notizie  potrebbero  essere  reperite  presso  ERODOTO  (VI,  65,2)(308)   e  ATENEO(309) anche se in maniera indiretta. Ma non è che vengano  date ulteriori e più dettagliate notizie in merito. Senofonte, che pure visse molti anni a Sparta e scrisse un trattato sulla costituzione spartana, non ne fa cenno. Questa omissione va considerata quantomeno come è curiosa, anche perché, di fatto, a Sparta era possibile una sorta di poliandria(310).

Notizie di ampia portata, invece, ci offre Plutarco a proposito del matrimonio romano, su cui si diffonde senz’altro in maniera più esaustiva che pel matrimonio spartano (e direi greco in generale). Forse perché tale uso  a   Sparta   era   in   declino   o   quasi   del   tutto   scomparso?   Non dimentichiamo che il celebre biografo greco visse tra il I ed il II secolo  d. C., in un’età quindi ormai lontana dalla Grecia classica o meglio   dell’età cosiddetta arcaica (che in questa sede ci interesserebbe maggiormente).

A Roma, come ricorda PLUTARCO(311), tipica nel rito matrimoniale della deductio, era invece ancora viva la tradizione del rapimento della sposa, che si faceva risalire al noto ratto delle Sabine(312).
A tale prassi Plutarco ricollega l’eziologia di varie invocazioni, in particolare TALASIO, citato anche in LIVIO(313),   ma   di   controversa   definizione,   pur   che   più   o   meno consensualmente riferito al rapimento delle Sabine. Anche la tradizione (rimasta presso di noi fino ad oggi!) che voleva che la sposa varcasse per la prima volta la soglia della nuova domus familiare sollevata a braccia dello sposo, oltre ad avere valenze di scongiuro, era interpretata alla luce di tale evento.



GIAMPAOLO MORTARO

5. Ratto della sposa nella Bibbia. Breve esposizione ed interpretazione.

Ci sono nella Bibbia vari casi di ratto di donne a scopo di matrimonio.
Il primo caso si riferisce ai figli di Dio che videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero (cfr. Genesi 6,1-6).
Il secondo caso si riferisce al ratto di Dina, figlia di Giacobbe e di Lia, rapita da Sichem, figlio di Camor, l’Eveo (cfr. Genesi 34,1-31).
Il terzo caso si riferisce al ratto delle donne vergini di Iabes di Galaad per darle come spose alla distrutta tribù di Beniamino (cfr. Giudici 21,1-25).
In questa ricerca ci occuperemo soltanto del ratto di Dina, perché il più affine al nostro scopo d’indagine.
Nel racconto di Genesi 34,1-31 si assiste ad uno spostamento generazionale: agiscono i “figli di Giacobbe”; la figura femminile è Dina, non le mogli di Giacobbe; non si parla più di nomadi o seminomadi ma di sedentari. Sono indizi importanti per valutare la diversità della narrazione rispetto al ciclo di Giacobbe di cui fa parte.

La critica della tradizione ha messo in luce il lavoro del narratore postesilico, che dà all’insieme un carattere intollerante contro i matrimoni “misti”:  egli  avrebbe  usato lo  schema  di  un racconto patriarcale  antico (tradizione Eloista), concepito sulla base di problemi familiari, inserendovi un racconto più recente (tradizione Javista) – caratteristica del periodo della sedentarizzazione – che testimonia un tentativo d’infiltrazione pacifica attraverso vincoli matrimoniali ed economici. Il narratore amalgama due livelli, il “familiare” e il “nazionale”, in funzione della finalità a lui derivante da un problema di attualità, i cosidetti matrimoni “misti”. Abbiamo quindi due fasi del racconto; la prima fase legata alla saga dei clans, la conquista della terra da parte dei patriarchi e, con un outlook secolare. La seconda fase riflette l’out look del dominante periodo postesilico con l’antagonismo tra Giudei e Gentili.

Possiamo quindi – nonostante le molte difficoltà testuali – leggere il racconto   in   modo   unitario.(314)     Evidenziando   la   presenza   dei   diversi personaggi sulla scena emerge la seguente struttura letteraria:

A) vv. 1-4; il fatto: Sichem e Dina. Una donna è violentata ma il suo violentatore s’innamora di lei e vuole sposarla. Le leggi di Esodo e Deuteronomio non vi troverebbero nulla d’ ingiusto.

B) vv. 5-7; reazioni di Giacobbe, di Camor e dei figli di Giacobbe. L’aspetto d’ingiustizia viene sottolineato dai figli di Giacobbe. Si tratta sempre di delitti sessuali considerati gravissimi da un Israele già identificato. Tuttavia, nel comportamento di Sichem non si trova motivo d’infamia secondo la legislazione antica, per trovarlo si deve ricorrere alla legislazione postesilica contro i matrimoni misti.

C) vv. 8-24; dialogo tra Camor e Sichem con Giacobbe ed i suoi figli. Il padre Camor è attento alla dimensione politica ed ai diritti di cittadinanza. Il figlio Sichem è invece tutto preso dal problema personale e familiare di stabilire il prezzo della dote.

A’)  vv. 25-29; vendetta di Simeone e Levi e saccheggio di Sichem. I figli di Giacobbe rispondono con la frode all’offesa nei confronti di Dina che rimane oggetto passivo. Ella ha subito un disonore cultuale ( tm’: vv.5.13.27): un popolo “santo”, ”separato”, non deve mischiarsi con altri popoli. Al denaro del risarcimento si preferisce la circoncisione, che non è presentata però nel suo valore religioso ma solo nella sua valenza sociale. Nell’esecuzione della vendetta si deve distinguere l’azione di Simone e Levi da quella di tutte le tribù dei figli di Giacobbe che entrano in scena  quando orami l’attacco è terminato. Si deve probabilmente trovare qui una memoria delle  due  tribù  nel  conflitto  con  qualche  città-stato,  riletto  come  un problema di rapporti familiari.

B’) vv. 30s; commento dell’accaduto. Si colgono due diverse valutazioni dell’episodio. Giacobbe lo giudica in prospettiva politica. I “figli di Giacobbe”, invece, pensano di aver agito con giustizia, avendo vendicato l’onore della sorella. E Dina, come “giudica” (dyn) il comportamento dei fratelli? E il narratore?

In questo racconto del capitolo 34 di Genesi si coglie un’ideologia ben diversa da quella dei racconti patriarcali, una voglia di conquista che quadra meglio in altri contesti (cfr. Giosuè o Giudici). Il padre Giacobbe avrebbe applicato la “legge specchio”: hai convinto la ragazza ora convinci suo padre, hai forzato la ragazza ora sei forzato a sposarla, comunque non è un crimine capitale, si può riparare.

Commento

Per il ciclo di Giacobbe è chiaro che una vergine o una donna non sposata e non promessa in moglie non è disonorata da un rapporto sessuale illecito. Israele condivide i valori dell’antico Medio Oriente, Sumeri, Babilonesi, Ittiti e Assiri. Il termine “disonore” appartiene al codice sacerdotale. L’episodio di Dina, prima saga di clans pre-monarchici, è stato trasformato in un racconto paradigmatico con un messaggio sui matrimoni misti, contratti con le tribù confinanti.

Uno  studioso  contemporaneo  della  Bibbia,  ALEXANDER  ROFÈ(315), propone di considerare come successiva l’aggiunta della parola “disonorata” (tm’) riferita a Dina. Nella Bibbia solo donne sposate o promesse spose sono “disonorate” da un ratto. Il fatto che Genesi 34 sia la sola eccezione suggerisce che riflette una tardiva nozione postesilica in cui  i gentili idolatri sono “impuri”e quindi non si possono contrarre   matrimoni con loro.
L’anacronistica preoccupazione per la purezza razziale indica la data del quarto o quinto secolo avanti Cristo, quando l’Israele postesilico era preoccupato per simili polemiche anti-Samaritane contro i matrimoni misti.
La nozione del “disonore” non è originata nelle leggi familiari d’Israele, ma viene da Esdra 2,21 che condanna l’impurità idolatrica  delle nazioni della terra. Non è certo, afferma l’autore, se Dina sia veramente stata  violentata nel racconto primitivo di questo “ratto”. Il racconto  è vago su quello che veramente successe tra Sichem e Dina che “uscì a vedere le ragazze del paese”,  il  verbo  tradotto  come  “violentata”o  “umiliata”  può  anche significare “giacere insieme”, e quindi  un più antica  versione  di Genesi 34 potrebbe essere nient’altro che un racconto del “custom of abduction marriage”, il tradizionale ratto della sposa.



ALDO RIDOLFI

6. Il furto della sposa nella fiaba popolare.

Le costanti che si ritrovano nelle precedenti analisi del “Furto della sposa” (Val Badia, Val Gardena, Val di Fassa, Livinallongo, Celle, Santa Lucia, Cortina  d’Ampezzo,  mondo  classico,  Bibbia  e  Antropologia  sociale) insistono anche nell’universo della fiaba. Elementi come il Furto della sposa, l’endogamia e l’esogamia, la struttura dei gruppi sociali e le norme che li regolano, i desideri e le aspirazioni dei singoli, si ripresentano con insistente frequenza anche nel mondo della fiaba.

L’accettazione entusiasta da parte dei bambini è testimonianza attendibile del carisma che questi testi possiedono nei confronti della sensibilità e del pensiero infantili.(316) Ne è convinto anche lo scrivente avendo presentato per anni, a scuola, le fiabe ai bambini di undici anni, i quali hanno sempre apprezzato trame, personaggi ed emozioni purché non si insistesse troppo nella “microchirurgia” didattica, spesso suggerita dalle antologie con eccessiva generosità. E sta forse in questo relativo “rifiuto” dei bambini a smontare in piccoli pezzi la storia la migliore dimostrazione che le fiabe parlano da sole, senza bisogno di intermediazione.

E’ dunque possibile affermare, con Italo CALVINO, che le fiabe «sono vere. Sono, prese tutte insieme,… una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna…»,(317)   e  dare  per certo  che  le  fiabe  vantano  un’antichità  remota, attingono a vissuti antichissimi e conservano, formidabilmente “nascosti”, comportamenti ritenuti essenziali nei primitivi gruppi umani.(318)  Non solo, ma esse manifestano interessanti contiguità anche con la più specifica questione  dell’endogamia  e  dell’esogamia.(319)   Sono  questioni,  queste,  che attengono alla dimensione originaria della vita comunitaria umana e che sono  state  conservate  anche  nel  linguaggio  se  è  vero  che  in  russo matrimonio  ha  il  significato  di  “portar  via”.(320)    Anche  nel  linguaggio dialettale veronese sono rimaste tracce di vissuti simili. Infatti era usuale, fino agli anni Cinquanta, ascoltare espressioni del tipo: «Ci alo tolto Giuseppe? (Chi ha sposato Giuseppe?)» e, come risposta, «Giuseppe l’ha tolto la Maria». Ebbene: la voce verbale dialettale “tore” (togliere), pur potendo assumere accezioni diverse, ha di sicuro anche quella di “portar via”.(321)  
Va inoltre aggiunto, per continuare – e concludere – a sfiorare il folklore veronese, che il matrimonio, per la donna, costituiva un’esperienza complicata e piena di incertezze e dubbi perché il suo era spostamento da una famiglia ad un’altra con tutte le paure che ciò comportava.(322)  Accenna a questa dinamica anche LÉVI-STRAUSS: «Il matrimonio tra estranei costituisce un progresso sociale, dato che integra gruppi più vasti, ma è anche un’avventura».(323)

La  questione  ora  è:  sono  presenti  nelle  fiabe  situazioni  che  possono richiamare comportamenti così lontani e così “primitivi”?

In “Bella fronte”, (324)  la ragazza, figlia del Sultano, viene prima rapita dai corsari, ma si tratta di un rapimento necessario per mettere in moto il complesso racconto. In seguito alle alterne vicende della vita, la ragazza si unisce con un giovane mercante e insieme finiscono, come si direbbe oggi, per “convivere”. Ma il Sultano, padre della giovane, la ritrova e la riporta alla reggia.  L’innamorato  piomba  nella  disperazione,  ma  destino  vuole  che finisca, in seguito ad una tempesta in mare, come giardiniere nella medesima reggia della sua bella, da dove, con uno stratagemma e con la complicità della sua “convivente”, si allontana per sempre dalla regia e dal Sultano, portando però con sé la giovane.
Sembrano qui condensati due importanti motivi. Quello dell’esogamia: infatti il giovane, figlio di mercante e mercante lui stesso, incontra la sua donna addirittura in mezzo al mare, proveniente dalla Turchia, un paese veramente, nell’immaginario popolare, collocato “lontano,  lontano”. 
Il  giovane  ritorna,  alla  fine,  nella  casa  paterna,  si riconcilia con il padre, ma intanto porta con sé la sua donna che proviene dalle lontanissime ed indefinibili terre turche. Il secondo motivo allude, secondo me in modo inequivocabile, al furto della sposa. Infatti, stando al testo, appena i due giovani, per merito del caso, si sono ritrovati «subito studiarono il modo di scappare». E il bastimento salpò. In questa immagine della nave che salpa, infine, c’è anche tutta la grandezza e tutta l’incertezza che il matrimonio significava per la sposa. Aprendo un altro importante scenario: quello del destino della sposa nel nuovo clan, cui si è fatto rapidissimo cenno qualche riga più in alto.

Ma il rischio del rapimento di una giovane donna in odore di matrimonio insiste anche ne “Il pappagallo”.(325) E’ una storia complessa perché il motivo del rapimento è velatamente presente nella trama e si manifesta nella paura del padre mercante il quale teme che, in sua assenza, la figlia possa essere rapita. E lo stesso pappagallo – l’innamorato sotto mentite spoglie – alla conclusione del racconto afferma che un suo rivale «voleva rapirla». Ma il motivo del rapimento è anche rielaborato nel racconto che lo stesso pappagallo va via via facendo alla ragazza, esprimendo grandi capacità affabulatorie allo scopo di guadagnare tempo e impedire al rivale di entrare in scena. Il pappagallo (il pretendente-re cui arride il successo), raccontando la storia di una principessa rapita dai banditi, mette in scena se stesso. Egli evita il rapimento da parte del rivale, ma il destino della fanciulla è segnato: abbandonerà la sua casa e sposerà il Re.

Non solo i maschi, però, nelle fiabe, si allontanano da casa per cercare moglie al di fuori del loro ambiente. Anche le ragazze sono in costante movimento; quasi che la loro dimora, la loro famiglia, il loro clan costituissero una “prigione”, un luogo da cui sciamare, il posto nel quale non è possibile perpetuare la vita. Se non era il rapimento a toglierle dal loro ambiente, vi era una personale e ferma volontà di andarsene. Talvolta ciò avviene sotto la condiscendenza e perfino la benedizione del padre, altre volte  con  una  vena  di  triste  amarezza  del  genitore.(326)  
Ne  “Il  palazzo dell’Omo morto”,(327)  la figlia del re dichiara esplicitamente: «Non so cosa sarà di me, ma voglio andarmene!»
Ne “Il nonno che non si vede”, un’altra ragazza del popolo dichiara testualmente: «Voglio andarmene pel mondo a vedere se trovo la mia fortuna».
La Stellina del “Il Re degli animali”, invece, abbandona la casa perché la matrigna è insopportabile. Ancora una volta la volontà femminile è inequivocabile: «piuttosto che a star qua a mangiarmi l’anima tutto il dì vado a fare la contadina». E se ne va. Pur con una certa fatica, una celata malinconia.

Dovendo interpretare una costante di questo tipo che sembra attribuire alla donna l’iniziativa dell’uscire di casa, riposizionando quindi il concetto di “Furto della sposa”, pare di poter dire che la fiaba ha saputo, con estrema delicatezza, raccontare l’atavica regola capovolgendo il punto di vista da maschile a femminile. Insomma, non saremmo in presenza di una “lettura al femminile” dell’esigenza esogamica? Che le fiabe possano nascondere anche un protagonismo femminile ante litteram?

7. CONCLUSIONI.

Poiché a nostro parere il rito ha un ruolo facilitatore nella gestione dei conflitti, il furto della sposa sottende la possibilità, mediante un atto simbolico, di superarne la dicotomia violenza/passività proposta dalla realistica sottrazione della ragazza, che sposandosi, viene “tolta” alle possibilità dei giovani ancora scapoli. Sottrazione, tanto più importante in una cultura contadina in cui la donna era ritenuta al pari di un oggetto, un bene, una forza lavoro, produttrice generativa, di proprietà della famiglia, che  poteva  essere  ceduta  (se  non  venduta)  solamente  a  cambio  di determinate condizioni, accordi e patti.

Il rito nella forma che abbiamo descritta si presta quindi ad esprimere questo conflitto e in qualche modo a facilitarne il superamento; cioè, ne riconosce l’esistenza e lo affronta, senza negarlo o cercare di evitarlo, attraverso una possibile negoziazione; grazie al simbolo l’elemento ritualizzato viene reso socialmente accettabile. Nei riti ancestrali l’elemento ritualizzato viene abreagito dai partecipanti che non hanno poi la necessità di trovare altrove la risoluzione della condizione che se agita direttamente potrebbe creare contrasti sociali o individuali. Infatti la dinamica emersa sia a livello storico (mondo preistorico e classico), sia in diversi generi letterari (narrazioni bibliche e fiabe) raccontano di uno sviluppo che converge un unico obiettivo, quello appunto di esprimere un conflitto e il suo superamento. Per tornare quindi alle vallate ladine da cui siamo partiti, la risoluzione del conflitto avviene da parte dei giovani più o meno coetanei, ma che avessero compiuto ad ogni caso la maggiore età (quella sufficiente per corteggiare le ragazze e per poter accedere alle osterie) con il “far pagare” allo sposo, il giorno successivo, “il conto” delle bevute, del festante, ma allo stesso momento rassegnato gruppo di giovani.



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Informatori

(Val  Gardena):  Luis  Wancher  (classe  1933);  
dott.  Leander Moroder (classe 1961).





NOTE


285 -DE JÀN, 2003, 41.

286 - Informatori: Luis Wancher (classe 1933), Leander Moroder (classe 1961).

287- FORNI, 2007,

288 - COLLESELLI, 1956.

289 -LEZÙO, 1961.

290 - VALENTINI, 1971, 113-114.

291 - VALENTINI, 1885, 199.

292 - KALTENBAECK, 1849

293 - BIERHOST, 1984; CAMPBELL, 1990; ELIDE, 1981; JUNG, 1967; FREUD, 1997.

294 - JUNG, 1997.

295 - LEVY STRAUSS, 2010.

296 - FREUD, 1993

297 - FOX, 1983.

298 - PIAZZOLA,  www.sanmartinoba.it  (settembre 2011)

299 - SORDI, 1982, 1416.

300 - ERODOTO, I,1, 2-6.

301 - Cfr. CHIRASSI, 1994. Persefone pare esser stata originariamente divinità degli inferi o ctonia, al di fuori del mondo olimpico vero e proprio, cui invece afferiva Demetra

302 - Cfr. KERENY, 1967.

303 - CLAUDIANO, Il rapimento di Proser pina, vv. 32-66; 93-116.

304 - Nella circostanza attuale le ricerche finora svolte in tale direzione non hanno ancora dato esito

305 - Inno omerico a Demetra II, vv. 370-74,  a cura di F. Cassoli, Milano 1994

306 - MYLONAS, 1961.

307 - PLUTARCO, Vita di Licurgo, 100: “Prendevano in moglie, con un rapimento, donne né piccole d’età né immature, bensì nel pieno dello sviluppo fisico e della maturità; della ragazza rapita se ne assumeva la cura la cosiddetta nympheutria, le rasava i capelli a zero, le faceva indossare abbigliamento e calzari da uomo e la faceva sdraiare su un giaciglio, da sola, senza luce. Il giovane sposo poi, non ubriaco o infiacchito, ma sobrio, dopo avere come sempre mangiato alle mense comuni, si introduceva furtivamente, le slacciava la cinta, la sollevava fra le braccia e la deponeva sul letto. Trascorrevano insieme un tempo limitato; quindi si allontanava con fare dimesso nel luogo in cui fino a quel momento era solito andare a dormire in compagnia degli altri giovani. Anche in seguito si comportava così, trascorrendo con i coetanei i propri giorni e le proprie notti, e recandosi dalla giovane compagna di nascosto con circospezione, nell’imbarazzo e nel timore che qualcuno dei familiari se ne accorgesse; nel frattempo anche la ragazza si dava da fare a escogitare espedienti e fornire il suo aiuto per incontrarsi al momento opportuno e senza esser visti. E mantenevano un tale comportamento per un periodo di tempo non breve, al punto tale che alcuni finivano con il mettere al mondo dei figli prima ancora di aver visto”

308 - ERODOTO,VI,  65,  2  “Leotichida  era  divenuto  particolarmente  ostile  a  Demarato  per  la seguente  ragione:  benché  Leotichida  avesse  già  scelto  come  sposa  Percalo,  la  figlia  di Demarmeno, figlio a sua volta di Chilone, Demarato con un raggiro aveva mandato in fumo le nozze a Leotichida,  dal  momento che, avendolo preceduto, aveva rapito  Percalo e se l’era sposata.”

309 - ATENEO, fr. 555: “E infatti il nostro buon ospite, mentre tesseva l’elogio delle mogli, ricordò la testimonianza di Ermippo nell’opera Legislatori, secondo cui a Sparta tutte ragazze nubili venivano rinchiuse in una stanza buia, dentro cui c’erano anche i giovani non sposati: ciascuno di essi prendeva in moglie, senza dote, quella che riusciva ad afferrare”.

310  - GIANNELLI. Trattato di storia greca, Roma 1951, 112-113

311 - PLUTARCO, Vita di  Romolo 58-60 “riferisce a questi episodi l’usanza romana del grido nuziale T(h)alassio o Talasse che deriverebbe da un nobile romano al quale la folla offrì (gridando appunto il suo nome Talasio) una delle più belle fra le giovani rapite. Anche l’uso di far varcare la soglia  della  casa  alla  sposa  portandola  in  braccio  risalirebbe  al  ratto  delle Sabine  che non entrarono spontaneamente nelle case dei Romani ma vi furono introdotte con la forza …”  ; cfr. anche  Questioni Romane, 29, 31. in cui ritorna su questi temi

312 - Che poi sia stato utilizzato il mito per spiegare la prassi o che tale prassi si ricolleghi a qualche fatto realmente accaduto è ovviamente vexata quaestio.

313 - TITO  LIVIO, I, 9: “Arrivò moltissima gente, anche per il desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e Antemnati. I Sabini poi, vennero al completo, con tanto di figli e consorti. Invitati ospitalmente nelle case, dopo aver visto la posizione della città, le mura fortificate e la grande quantità di abitazioni, si meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta. Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all’impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle  mani  del  primo  in  cui  si  imbattevano:  quelle  che spiccavano  sulle  altre  per  bellezza, destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel compito. Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell’episodio deriva il nostro grido nuziale.  
 Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle fuggono affranti, accusandoli di aver violato il patto di ospitalità e invocando il dio in onore del quale erano venuti a vedere il rito e i giochi solenni, vittime di un’eccessiva fiducia nella legge divina. Le donne rapite, d’altra parte, non avevano maggiori speranze circa se stesse né minore indignazione. Ma Romolo in persona si aggirava tra di loro e le informava che la cosa era successa per l’arroganza dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli. Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte aveva già dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue l’armonia dell’accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della patria. A tutto questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con il trasporto della passione), attenzioni che sono l’arma più efficace nei confronti dell’indole femminile.”


314 - BORGONOVO, 1995, 143-144.

315 - ROFÈ, “Defilement of Virgins in Biblical Law and the Case of Dinah (Genesis 34)”. Biblica 86 (3). (2005) 369, 375.

316 - BETTELHEIM, 1997, 12, afferma appunto che i bambini trovano «le fiabe popolari più soddisfacenti di tutte le altre storie per l’infanzia» e che con le fiabe il bambino consegue «una comprensione preconscia di cose che lo turberebbero molto se fossero sottoposte senza tatto alla sua attenzione» (267).

317 - CALVINO, 2006, (I ed. 1956), “Introduzione”, p. XIV-XV. Questo saggio, assieme ad altri testi di Calvino inerenti la fiaba, è stato ripresentato in Sulla fiaba, Einaudi 1988.

318 -  Prendo tre citazioni, oserei dire a caso, tra le tante possibili, a sostegno del remoto mondo cui appartengono le fiabe: «Una testimonianza particolarmente tangibile dell’antichità della fiaba popolare è rappresentata dalla grande somiglianza di contenuto fra i racconti dei popoli più diversi» (THOMPSON, Stith, 1967 (I ed. 1946) 21; e ancora, ma questa volta da Wilhelm GRIMM, 1856, riportata da THOMPSON,  1967, 504: «Via via che si sviluppano costumi più umani e gentili… l’elemento mitico si ritrae sullo sfondo e comincia a offuscarsi». E infine ZIPES, Jack., 2004 (I ed. 1979), p. 32: «Le fiabe esistono come racconti popolari orali da migliaia di anni»

319 - Non è qui certo il caso di ripercorrere la storiografia attorno a simili questioni, ma qualche brevissimo richiamo appare opportuno: Angelo DE GUBERNATIS, nell’ottica che gli era propria, si è occupato della questione in Storia comparata degli usi nuziali in Italia e presso gli antichi popoli indo- europei, 1869; FREUD con la cosidetta “orda selvaggia” ha affrontato l’argomento in Totem e tabù, (1912-1913);  pochissimi  anni  prima  è  stato  il  turno  di  FRAZER  in  Matrimonio  e  parentela  e Totemismo ed exogamia (1910); successivamente è intervenuto LÉVY-STRAUSS con Le strutture elementari della parentela (1949). Si arriva poi ad una revisione significativa operata negli anni Sessanta-Settanta, vedasi a questo proposito Vernon REYNOLDS  in La biologia dell’azione umana Per una biosociologia della conoscenza, (1976).

320 - Prendo questa interessante osservazione da Gian Paolo CAPRETTINI G. P.: 1998: «Quanto alla deductio, il ratto della sposa, o più in generale l’atto con cui il promesso o lo sposo porta nella sua casa la donna, si ricordi che l’ingl. wedding “matrimonio” equivale a “condurre (una donna nella propria  casa)”;  l’olandese  bruiloft  “matrimonio”  è composto  da  brui  “sposa”  e  loft da  laupa “correre”; e ancora il russo brak “matrimonio” da brat’sja “portar via”». (p. 166).

321 - Sull’uso del verbo “togliere” (tore in dialetto), possiamo en passant fare queste poche osservazioni. Innanzitutto esso assume il significato di “togliere, portar via”: « L’è sta Renato a torte la matita (E’ stato Renato a toglierti la matita)», dove il verbo in questione aveva senz’altro il significato di “portare via”, anzi, di “rubare”, pur mancando di un’aggravante delittuosa. Una seconda accezione aveva il curioso significato di “predere”, come nell’espressione: « Tome el martelo (Prendimi il martello)». E ancora: «Sa eto tolto al marca’?  (Che cosa hai comperato al mercato?)», dunque con il significato di comperare! Non dimentichiamo, infatti, per il significato della nostra ricerca, che esiste l’espressione “Prendere in moglie”. Si vede quindi quanto interessante sia e quanti collegamenti consenta la sola riflessione su un lemma dialettale andato completamente perso. Non lo vedo rilevato, per esempio, nemmeno in RAPELLI, Gianni 2003.

322 - Recita infatti un proverbio veronese raccolto da Ezio BONOMI, 2009, 143: «Col dì che me marido, mi no rido». Devo qui citare, infine, due studi inerenti l’argomento “Furto della sposa” vertenti sul mondo lessinico. Il primo in ordine temporale è di Ezio BONOMI, La vita e i giorni nell’alta val d’Alpone, in Piero PIAZZOLA, (ed), 1988, pagg. 162-210; il secondo è di un illustre demologo, Giovanni TASSONI,  1991, 35-62.

323 - Vedi C. LEVI-STRAUSS, Le strutture fondamentali della parentela, Feltrinelli, pag. 94.

324 - “Bella Fronte” è una fiaba che Italo Calvino ha raccolto nella penisola istriana. Vedi CALVINO I., Fiabe italiane, Op. cit., n° 45.

 325 - “Il pappagallo” è una fiaba raccolta nel Monferrato. Vedi CALVINO I., Fiabe italiane, Op. cit., n° 15.

326 - Queste situazioni sono analizzate da Bruno BETTELHEIM  nell’opera già citata; non potendo affrontare una simile problematica, basti l’osservazione seguente: «Perché la ragazza possa amare in modo pieno il suo partner, deve essere in grado di trasferire su di lui il suo anteriore, infantile


327 - E’  la  n.  32  della  raccolta  di  CALVINO;  le  altre  due  citazioni  che  seguono  si  riferiscono rispettivamente alla n. 35 e alla n. 52.



Fonte: visto su Società Italiana di Etno Psico Antropologia  Per la tutela del patrimonio immateriale dell’umanita’



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