giovedì 8 gennaio 2015

IL CRISTIANESIMO HA DATO DIGNITÀ A DONNE E BAMBINI




Tutti oggi consideriamo «naturale» che donne e bambini abbiano diritti inviolabili equiparabili a quelli degli uomini, e che non possano essere proprietà di nessuno e da nessuno sacrificabili. Pochi sanno e tanti non vogliono sapere, tuttavia, che essi sono un dono della civiltà cristiana.

Anzi, come ha concluso dopo anni di studio uno dei più importanti sociologi delle religioni, Rodney Stark, docente di Scienze Sociali presso la Baylor University del Texas, le cause dell’incredibile aumento del numero dei cristiani dall’anno 40, in cui erano 1000, al 350 quando arrivarono a 32 milioni sono -oltre che l’attenzione e la cura per il prossimo- proprio per l’attenzione, la stima, il rispetto e la protezione che i cristiani praticavano nei confronti delle donne. Esse infatti, come vedremo, godevano di uno status più alto rispetto alle donne del mondo greco-romano, avevano rispetto e venivano equiparate all’uomo (R. Stark, “Le città di Dio. Come il cristianesimo ha conquistato l’impero romano”, Lindau 2010). La cristianità si sviluppò all’interno dell’impero romano non solo in virtù della forza della sua dottrina, ma anche perché riuscì a creare delle isole di stabilità, di protezione, di dignità per donne e bambini, all’interno delle rigide barriere etniche e di classe presenti nella società ebraica e romana.


I° PARTE


1. CONDIZIONE DELLA DONNA PRIMA DEL CRISTIANESIMO

Papa Francesco ha fatto un’affermazione molto chiara: «Gesù ha rotto gli schemi contro le donne: la misericordia di Dio è più grande dei pregiudizi».
E’ così, se andiamo ad osservare le culture germaniche, al tempo delle invasioni barbariche, alla donna «viene riconosciuta una inferiorità cronica nei confronti dell’uomo. Nessuna donna può vivere nel regno longobardo da libera, senza essere cioè soggetta al mundio, che sia del marito o del padre o dei fratelli, o in caso estremo del re, né può vendere o donare beni senza il consenso del mundualdo». Nelle leggi longobarde, «la donna è considerata più come oggetto di diritto che non come soggetto dello stesso: l’offesa recata a una donna viene riparata in quanto recata a un possesso dell’uomo» (M. Guidetti, “Storia d’Italia e d’Europa”, Jaca Book 1978, p. 161).

Come spiegato da Samir Khalil Samir, teologo, islamista e studioso di lingue semitiche, nel mondo islamico la donna invece soggiace alla poligamia, alla possibilità del marito di ripudiarla ripetendo tre volte la frase “sei ripudiata” dinnanzi a due testimoni maschi. Essa può essere comperata, tanto che la dote può essere essenziale per la validità del matrimonio; non ha potestà genitoriale; la sua testimonianza in tribunale vale la metà di quella di un uomo e può essere picchiata dal marito secondo la sura delle donne IV, 34 (G. Paolucci e C. Eid, “Cento domande sull’Islam”, Marietti 2002, p. 80-87).

Le donne elleniche, ha spiegato Rodney Stark, «vivevano quasi recluse, nelle classi elevate ancor più che nelle altre; e tutte conducevano una vita molto appartata; nelle famiglie privilegiate, alle donne veniva negato l’accesso alle stanze anteriori della casa» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 163). Per quanto riguarda le donne romane, invece, «non erano recluse, ma ugualmente subordinate al controllo maschile in molti altri modi. Né le donne elleniche né quelle romane avevano voce in capitolo nella scelta dell’uomo da sposare, né su quando sposarsi» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 163).

La situazione delle donne ebree era ancora diversa, secondo Filone di Alessandria, la più autorevole voce ebraica della diaspora, «le donne sono soprattutto adatte a una vita domestica che mai si allontana da casa […].Una donna non deve mai essere una ficcanaso che si intromette in faccende che vanno al di là dei suoi interessi domestici, ma deve scegliere una vita di solitudine» (citato in R. Scroggs, “Paul and the Eschatological Woman”, Journal of the American Academy of Religion 1972, 290). In particolare, ha spiegato Stark, «le moglie ebree venivano ripudiate dai loro mariti abbastanza spesso e facilmente, mentre loro non potevano chiedere il divorzio».

Inoltre, ha continuato lo storico inglese W.H. Clifford Frend, «le donne ebree non avevano il diritto di prestare testimonianza e non potevano aspettarsi che fosse data credibilità a ciò che riferivano» (W.H. Clifford Frend, “The rise of Christianity”, Fortress 1984, p.67). Nel Talmud babilonese, ad esempio, si trova scritto: «Meglio bruciare la Torah che insegnarla a una donna […]. Chiunque parla troppo con una donna fa del male a se stesso» (citato in S.G Bell, “Women: From the Greeks to the French Revolution”, Stanford University Press 1971, p.72). Tuttavia alcune donne ebree ricevevano una buona istruzione e avevano ruoli di leadership in certe sinagoghe, come confermano le iscrizioni di Smirne. In generale, le donne ebree stavano meglio di quelle pagane.


2. LA DONNA NEI VANGELI E IL CAMBIAMENTO IMPOSTO DA GESU’

Rispetto ai tempi precedenti in cui, come abbiamo visto, il ruolo della donna era subalterno rispetto all’uomo, diversamente dai maestri e dai dottori della legge dell’epoca Gesù manifesta una propensione positiva nei confronti delle donne. Parla con loro in pubblico, anche con chi non gode di buona nomea, come l’adultera (Gv 8,1-11), la prostituta nella casa di Simone (Lc 7,37-47) o la samaritana (Gv 4,7 ss). Molte donne sono presenti tra i suoi seguaci, cosa abbastanza insolita per un rabbì, per discepole ha le due sorelle di Lazzaro Marta e Maria, come leggiamo al momento della crocifissione, tra gli apostoli solo Giovanni rimane ed è in compagnia della Madre di Gesù, della «sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala» (Gv 19, 25), ma anche «molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo» (Mt 27, 55). Il giorno della Risurrezione sono ancora una volta le donne a udire: «Non è qui. E risorto, come aveva detto» (Mt 28, 6) e sempre una donna, Maria di Magdala, colei alla quale Gesù appare per primo e invita a portare agli altri il Suo annuncio di gioia e di speranza.

Per questo il filosofo laico Umberto Eco, professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna, si è domandato: «visto che è indubbio che Cristo si è sacrificato per maschi e per femmine e che, in spregio ai costumi dei suoi tempi, ha conferito privilegi altissimi alle sue seguaci di sesso femminile, visto che la sola creatura umana nata immune dal peccato originale è una donna, visto che è alle donne e non agli uomini che Cristo è apparso in prima istanza dopo la sua resurrezione, non sarebbe questa una chiara indicazione che egli, in polemica con le leggi del suo tempo, e nella misura in cui poteva ragionevolmente violarle, ha voluto dare alcune chiare indicazioni circa la parità dei sessi, se non di fronte alle leggi e i costumi storici, almeno rispetto al piano della Salvezza?» (C.M. Martini, U. Eco, In cosa crede chi non crede?, Liberal Libri 1996 p. 14).
Addirittura la femminista Elisabeth Schùssler Fiorenza, ha scritto: «Ciò che ci porta a vedere i testi biblici come una risorsa nella lotta per la liberazione dall’oppressione patriarcale, oltre che come modelli per la trasformazione della Chiesa patriarcale, non è un qualche canone speciale di testi che possano pretendere un’ autorità divina; è piuttosto l’esperienza delle donne stesse, nelle loro lotte di liberazione» (citata in C.M. Martini, “Guida alla lettura della Bibbia” p. 57).

Se dunque prima del cristianesimo la donna non ha mai avuto un ruolo importante, anzi -nel Medio Oriente antico- un ruolo «di profonda subordinazione sociale, il cui unico potere era nella fecondità, nel generare, nonostante che, alla fine, anche questo fosse amministrato da autorità maschili attraverso scambi di alleanze fra le famiglie» (C. Augias e M. Pesce, “Inchiesta su Gesù”, Mondadori 2006, pag. 38), i Vangeli attribuiscono ad esse un altissimo valore e responsabilità.
Lo testimonia ancora lo storico del cristianesimo Mauro Pesce: «Maria aveva un ruolo forte all’interno dei primi gruppi cristiani. Accade lo stesso anche alla madre di Giovanni e Giacomo il cui marito, Zebedeo, non gioca alcun ruolo, laddove la moglie ha un rilievo importante nel gruppo; infatti è lei a chiedere a Gesù, secondo Matteo, che i suoi due figli abbiano una funzione importante nel futuro regno di Dio (20,20-21): “Dì, che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”. In generale possiamo dire che nel gruppo di Gesù il ruolo delle donne è significativo» (C. Augias e M. Pesce, “Inchiesta su Gesù”, Mondadori 2006, pag. 34).


3. LA VISIONE DELLA DONNA DI SAN PAOLO

A volte la percezione del ruolo delle donne nella Chiesa delle origini è stata a lungo distorta da un’affermazione attribuita a Paolo: “Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare” (1Cor 14,34). Secondo Bart D. Ehrman, noto studioso statunitense del Nuovo Testamento e del cristianesimo delle origini (agnostico), «ci sono solide ragioni, comprese alcune prove nei manoscritti, per credere che l’ingiunzione di tacere rivolta alle donne non facesse originariamente parte della lettera ai Corinzi, ma sia stata aggiunta in seguito dai copisti» (B.D. Ehrman, “Gesù è davvero esistito?”, Mondadori 2013, p. 352). Robin Scroggs, biblista e docente di New Testament all’Union Theological Seminary di New York ha argomentato efficacemente che tale frase fu inserita da coloro che composero le lettere deutero-paoline e pastorali, attribuendole a Paolo, nel suo libro “Paul and the Eschatological Woman” (Journal of the American Academy of Religion 1972), come confermato anche da tanti altri studiosi. Anche Rodney Stark ha spiegato che «ci sono oggi valide ragioni per rifiutare queste parole in quanto risultano incoerenti con tutto ciò che Paolo ha da dire sulle donne» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 166).

Infatti tale affermazione stona vistosamente con la visione della donna di San Paolo espressa in molti altri passaggi. In Rm 16,1-2, ad esempio, egli raccomanda di accogliere come una santa la diaconessa Febe. Paolo, evidentemente, non vedeva niente di male nella responsabilità di guida della donna, anche perché la presenza di una diaconessa non era certo raro, come abbiamo già fatto notare. Lo stesso Paolo le aveva come collaboratrici, come osservato da Wayne Meeks, professore Emerito di Studi Religiosi alla Yale University: «Le donne […] sono le compagne di lavoro di Paolo in quanto evangeliste e maestre» (W. Meeks, “The First Urban Christians: The Social World of the Apostle Paul”, Yale University Press 1983, p.71).
San Paolo invitò all’equiparazione tra uomo e donna anche nell’esercizio della sessualità, ad esempio quando scrisse: «Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è il padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra continenza» (1Cor 7,3-5).

Il giurista italiano Stefano Rodotà, notoriamente laico, ha criticato nel 2013 lo «schema patrimoniale che vede il coniuge proprietario del corpo dell’altro coniuge o creditore di prestazioni sessuali». In questo modo, ha continuato, «si perdeva così il senso delle parole di Paolo nella prima Lettera ai Corinzi: “la moglie non ha potere sul suo corpo, ma il marito. Allo stesso modo non è il marito ad avere potere sul proprio corpo, ma la moglie”. In questo reciproco possesso era fondata l’eguaglianza tra i coniugi»


4. LA DONNA NEL PRIMO CRISTIANESIMO E NEL MEDIOEVO

Anche nella Chiesa delle origini, oltre che nei Vangeli, le donne ebbero un ruolo importante. Ad esempio nel 112 d.C., Plinio il Giovane fa notare in una lettera inviata all’imperatore Traiano di aver torturato due giovani donne cristiane «che venivano definite diaconesse» (citato in The Letters of Pliny the Younger” Penguin Classic 1969, 10.96). Le diaconesse erano capi importanti nella prima Chiesa, dotate di speciale responsabilità, citate da Clemente Allessandrino e lo stesso San Paolo ne parla in Rm 16,1-2. Origene (185-216 d.C.), commentando questo brano di Paolo, ha spiegato: «Questo testo insegna con l’autorità di un apostolo che […] nella Chiesa ci sono, come detto, diaconi donna, e che le donne […] devono essere ammesse al diaconato» (citato in R. Gryson, “The Ministry of Woman in the Early Church”, The Liturgical Press 1976, p. 134). Nel Concilio di Calcedonia del 451, si stabilì ad esempio che in futuro la diaconessa dovrà avere almeno 40 anni e non essere sposata.

Peter Brown, professore Emerito di Storia alla Princeton University, ha fatto osservare che «i membri del clero cristiano […] hanno compiuto un passo che li ha separati dai rabbini di Palestina […]. Accoglievano le donne come protettrici e giungevano fino a dare loro dei ruoli in cui potevano agire come collaboratori» (P. Brown, “The Body and Society”, Columbia University Press 1988 p. 144,145).
Wayne Meeks, professore Emerito di Studi Religiosi alla Yale University ha a sua volta commentato che «sia in termini di posto che occupano all’interno della società più vasta che in termini di partecipazione alle comunità cristiane, un gran numero di donne disattese le normali aspettative legati ai ruoli femminili» (W. Meeks, “The First Urban Christians: The Social World of the Apostle Paul”, Yale University Press 1983, p.71)

Nella Chiesa antica la differenza maschile e femminile non è mai stata in opposizione, bensì in armonia con il fatto che entrambi sono parte dell’unità dell’essere umano: l’uomo, così come la donna, non esistono “da soli” ma acquisiscono un senso e una pienezza solo se si pongono “in relazione”. «Le donne cristiane», ha spiegato Rodney Stark, «godevano davvero di maggior uguaglianza con gli uomini di quanta ne avessero le controparti pagane o ebree» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 166).
Teodoreto di Cirro (393 circa – 457 circa), vescovo di Cirro, in Siria, scriveva: «Al pari dell’uomo la donna è dotata di ragione, capace di comprendere e conscia del proprio dovere; come lui essa sa ciò che deve evitare e ciò che deve ricercare; può darsi talvolta che esse giudichi meglio dell’uomo ciò che può riuscire utile e che essa sia una buona consigliera» (citato in F. Agnoli, “Inchiesta sul cristianesimo”, Piemme 2010, p. 60).
Lo conferma anche l’archeologia: uno studio sulle sepolture in catacombe sotto Roma, basato su 3733 casi, ha rivelato che le donne cristiane avevano quasi le stesse probabilità degli uomini di essere commemorate con lunghe iscrizioni. Questa «quasi uguaglianza nella commemorazione di maschi e femmine è qualcosa di peculiarmente cristiano, e differenzia i cristiani dalle popolazioni non cristiane della città», ha spiegato Brent D. Shaw, storico canadese dell’Università di Princeton (B.D. Shaw, “Season of Death: Aspects of Mortality in Imperial Roman, Journal of Roman Studies 1996, p. 107)

Questi elementi insieme al culto di Maria, fecero sì che nelle comunità cristiane, fin dall’inizio, ci fu una prevalenza numerica delle donne. La crescita di comunità sane con la presenza di molte donne virtuose fu decisiva per la crescita demografica dei cristiani: accadde infatti che i pagani trovavano donne virtuose per contrarre matrimoni nelle comunità cristiane. La percentuale di unioni tra donne cristiane e uomini pagani fu relativamente alta, e generò molte conversioni dei coniugi maschi al cristianesimo. La conseguenza ultima di questi fenomeni fu ovviamente un aumento del tasso di natalità all’interno dei circoli cristiani. Come ha osservato lo storico della Chiesa dell’Università di Cambridge, Henry Chadwick, «il cristianesimo sembra aver riscosso un successo speciale fra le donne. E’ stato spesso attraverso le mogli che esso ha raggiuntole classi elevate nei primi tempi» (H. Chadwkic, “The Early Church”, Penguin Books 1967, p. 56).

Ma perché questa sproporzione numerica di donne rispetto agli uomini? Rodney Stark lo ha spiegato così: «Perché il cristianesimo offriva loro una vita enormemente superiore a quella che avrebbero altrimenti condotto» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 162). La differenza con altre culture è stata spiegata più sopra. Per questo Rodney Stark, a conclusione del suo lavoro sull’incredibile diffusione del cristianesimo nei primi secoli, ha spiegato: «L’ascesa del cristianesimo fu opera delle donne. In risposta alle speciali attrattive che questa religione presentava ai loro occhi, la Chiesa delle origini riuscì a convertire molte più donne che uomini, e questo in un mondo dove le donne scarseggiavano. Tale eccesso di donne diede alla Chiesa un noto vantaggio perché portò a una fertilità cristiana sproporzionalmente elevata e a un crescente numero di conversioni secondarie (dei loro mariti)» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 180,181)

Eppure, ha sottolineato nel 2009 lo scrittore Francesco Agnoli, esiste un’idea abbastanza diffusa che vede la Chiesa cattolica come l’artefice della discriminazione della donna come essere inferiore. Per smentire questa calunnia basterebbe citare le innumerevoli grandi donne del cristianesimo, partendo dalle diverse martiri dei primi secoli (Agnese, Tecla, Cecilia, Margherita, Blandina…), venerate da tutto il popolo cristiano con immensa devozione e derise dai polemisti anticristiani, come Celso a Porfirio, che nei loro libelli sottolineano che alla “nuova religione” aderiscono non tanto uomini colti e filosofi, quanto “donnette”, “donne sciocche”, “schiavi” e “ragazzini”.
Mentre le donne più importanti dell’antichità di cui si conserva il nome sono pochissime, sovente ricordate più per la loro condizione di etere e prostitute d’alto bordo che per altri motivi, innumerevoli sono le donne colte dei monasteri, le donne nobili o meno dedite alle opere di carità (Pulcheria, Eudoxia, Galla Placidia, Olimpia, Melania…), così pure come con le donne che hanno cambiato la storia dei loro regni come le principesse Clotilde, Teodolinda, Berta Di Kent, Olga di Kiev. «Dappertutto», ha scritto la storica Régine Pernoud, «si constata il legame tra la donna e il Vangelo se si seguono, tappa dopo tappa, gli avvenimenti e i popoli nella loro vita concreta» (R. Pernoud, “La donna al tempo delle cattedrali”, Rizzoli 1986, p. 18). Dopo che san Paolo ha sconvolto tutto il pensiero antico, proclamando che “in Cristo non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero” (Gal 3, 28) è utile far presente che il cristianesimo è l’unica religione in cui il rito di iniziazione e quindi di ammissione alla comunità, cioè il battesimo, è uguale per uomini e donne.

Lo storico francese Jacques Le Goff ha scritto: «Io ritengo che l’idea che la donna sia uguale all’uomo abbia determinato la concezione cristiana della donna e abbia influenzato la visione e l’atteggiamento della Chiesa medievale nei suoi confronti» (J. Le Goffe, “Un lungo Medioevo”, Dedalo 2006, p. 92). Infatti, ha spiegato ancora il celebre accademico, Tommaso d’Aquino «afferma a grandi linee, che Dio ha creato Eva da una costola di Adamo e non l’ha creata dalla testa o dai piedi; se l’avesse creata dalla testa, ciò avrebbe voluto dire che Egli vedeva in lei una creatura superiore ad Adamo, al contrario, se l’avesse creata dai piedi l’avrebbe considerata inferiore: la costola si trova a metà del corpo, e la scelta quindi stabilisce l’uguaglianza, nella volontà di Dio, di Adamo e di Eva» (J. Le Goff, “Un lungo medioevo”, Dedalo 2006, p. 91,92).

Nel saggio “Donna Domina. Potere al femminile da Cleopatra a Margaret Thatcher” (Bononia University Press 214), la storica Francesca Roversi Monaco, docente di Storia medioevale all’Università di Bologna, ha riflettuto sul ruolo della donna nel Medioevo cristiano. Il saggio è stato recensito con queste parole da Angelo Varni, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna e Direttore della Scuola Superiore di Giornalismo: «Ancora sovrane, principesse e nobildonne a dar sostanza ad un ruolo di potere politico ricoperto da donne nel Medioevo. Ce lo dimostrano i due persuasivi ritratti di Matilde di Canossa e di Ildegarda di Bingen». Nel libro «si descrive un’epoca che, ad onta dei luoghi comuni sulle sue chiusure, apriva spazi di presenza femminile ai vertici più alti della gestione della cosa pubblica finanche internazionale, irradiantesi dalle corti e dai monasteri affidati per vicende ereditarie e nobiltà di lignaggio alle loro cure».
Al contrario, «fu la Rivoluzione francese rimettere in discussione simili opportunità tutte derivate dall’appartenenza di casta: nella società borghese dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri non parve affatto naturale riconoscere alle donne una loro paritaria presenza nella dimensione pubblica, mentre il positivismo ottocentesco si sforzava di trovare ragioni oggettive per relegarle nei limiti del privato».


5. MATRIMONIO, FEDELTÀ’, VEDOVANZA E INFERTILITA’

Il cristianesimo contribuì a redimere il valore della donna anche grazie alla nuova e radicale posizione su alcuni aspetti della vita sociale. Innanzitutto il matrimonio. Le ragazze pagane venivano sposate in giovane età, di solito da uomini molto più vecchi, e raramente avevano voce in capitolo nella scelta dello sposo, così anche per le donne romane, per le quali matrimonio si celebrava solitamente prima della pubertà e veniva subito consumato (esempi sono Ottavia, Agrippina, la moglie di Quintilliano e quella di Tacito).
Lo storico Plutarco (46-120 d.C.) riporta che i romani «davano le loro figlie in spose quando avevano dodici anni, se non prima», tanto che egli descrisse «l’odio e la paura delle ragazze costrette contro natura» (citato in K. Hopkins, “The Age of Roman Girls at Marriage”, Population Studies 1965, p.114). Lo storico Cassio Dione (155-229 d.C.) concorda: «Le ragazze sono ritenute pronte per il matrimonio al compimento del loro undicesimo anno di età» (Cassio Dione, “Storia romana”).

Al contrario, fin dal primo cristianesimo «le donne cristiane si sposavano più tardi e avevano più scelta su chi sposare. Non è questione da poco se si pensa che le donne pagane erano spesso costrette a sposarsi e a consumare il matrimonio in età prepuberale (11 o 12 anni), mentre la gran parte di quelle cristiane aspettavano anche i 18 anni» (R. Stark, “Ascesa e affermazione del cristianesimo”, Lindau 2007, cap. 5). Inoltre, le donne cristiane avevano voce in capitolo sulla persona da sposare e partecipavano ad un matrimonio più sicuro, perché quello cristiano è ed era imprescindibilmente monogamico e indissolubile. Tutto questo quindi sottintende e implica anzitutto la pari dignità degli sposi: non è lecito ad un uomo avere più mogli, nel suo gineceo o nel suo harem! Non è lecito, in virtù della sua maggior forza, ripudiare la moglie, come fosse un oggetto, né sostituirla con delle schiave! E neppure, ovviamente, il contrario.
Uno studio sull’età in cui ci si sposava, basato su iscrizioni funerarie romane, ha permesso di distinguere le donne cristiane da quelle pagane, con differenze molto nette: il 20% delle donne pagane aveva dodici anni o meno quando si sposava (il 4% aveva solo 10 anni), invece solo il 7% delle spose cristiane era sotto i tredici anni. Metà delle donne pagane si erano sposate prima dei quindici anni, rispetto al 20% delle cristiane e circa metà delle donne cristiane non si erano sposate fino all’età di diciotto anni o più (citato in K. Hopkins, “The Age of Roman Girls at Marriage”, Population Studies 1965).

Questa nuova considerazione della donna è stata spiegata così dal celebre storico del medioevo Jacques Le Goff: «Credo che tale rispetto della donna sia una delle grandi innovazioni del cristianesimo; pensiamo alla riflessione che la chiesa ha condotto sulla coppia e sul matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, ora tipicamente cristiana, formalizzata dal quarto concilio Lateranense nel 1215, che ne fa un atto pubblico (da cui la pubblicazione dei bandi) e, cosa fondamentale, un atto che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti. Ciò che mi pare rilevante nelle disposizioni del concilio Lateranense è il fatto che il matrimonio diventa impossibile senza l’accordo dello sposo e della sposa, dell’uomo e della donna: la donna non può essere data in matrimonio senza il suo consenso, essa deve dire sì» (Avvenire, 21/1/2007). 
Harold J. Barman, professore alla Harvard Law School, ha a sua volta spiegato che «sotto l’influenza del cristianesimo, a anche in virtù delle idee stoica e neoplatonica recepite dalla filosofia cristiana […], nel diritto di famiglia fu attribuita alla moglie una posizione più paritaria di fronte al marito, richiedendo il mutuo consenso di entrambi gli sposi per la validità del matrimonio, rendendo più difficile il divorzio (cosa che a quel tempo rappresentò un passo avanti verso la liberazione femminile) e abolendo il potere di vita e di morte del capo famiglia sui propri figli» (H.J. Barman, “Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale”, Il Mulino 2006, p.179)

Barman ha citato il divorzio, la cui posizione fu definita da Gesù: «Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio» (Mt 19,9). E’ una rottura radicale con i costumi del passato, dove il divorzio si giustificava per un mero capriccio del marito.
La legge ebraica, ad esempio, stabiliva esplicitamente che una moglie ripudiata non era libera di «andare in moglie a qualunque uomo ebreo lei voglia» (M.J. Geller, “Early Christianity and the Dead Sea Scrolls”, University of London 57, 1994, p.83). La Chiesa invece è sempre stata inflessibile nella sua aderenza allo standard stabilito da Gesù, e ciò si tradusse nell’idea che non c’erano ragioni per risposarsi dopo il divorzio.
Anche nella sessualità della coppia il cristianesimo parlava di equiparazione tra uomo e donna, lo spiega San Paolo quando dice: «Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è il padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra continenza» (1Cor 7,3-5).
Il prof. Miguel Gotor, docente di Storia moderna presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, ha spiegato che i cristiani «hanno prevalentemente costruito un modello cognatizio che consente il trasferimento della parentela e della relativa eredità in ugual misura sia ai maschi sia alle femmine». Tali relazioni «proprie del cristianesimo hanno favorito una progressiva parità tra uomo e donna. Inoltre, il divieto di unioni tra parenti e la capacità della donna di ereditare, di trasmettere la proprietà e di sposarsi al di fuori della famiglia, hanno consentito una maggiore circolazione delle ricchezze e la formazione di un mercato autonomo, ma anche l’unione di Regni diversi senza guerra né sangue, bensì per via matrimoniale».

Il cristianesimo modificò anche la visione sull’infertilità, che nelle culture antiche veniva addossata alla moglie e giustificava il ripudio o il ricorso del marito ad altre donne, per ottenere il figlio desiderato. Si pensi ad esempio che le donne romane dovevano mettere al mondo almeno tre figli «per poter un giorno, alla morte del padre, essere libere da ogni tipo di tutela sui beni» (G. Duby e M. Perrot, “Storia delle donne”, Laterza 1993, pp. 342, 349). Nel cristianesimo, invece, «non è più motivo di separazione la sterilità, che nelle società antiche era vissuta sempre come malattia femminile» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza 2008, p. 15).
Rispetto all’adulterio, nel matrimonio cristiano esso è proibito sotto pena di peccato mortale per entrambi i coniugi, «nella società romana, al contrario, la legge puniva severamente le adultere mentre l’infedeltà dei mariti non era soggetta a sanzioni penali, né a una seria disapprovazione morale. Era anzi pienamente accettato che l’uomo intrattenesse rapporti sessuali con gli schiavi di entrambi i sessi presenti nella casa».
Come spiega L’Enciclopedia Treccani, «nel diritto germanico la donna adultera è lasciata alla vendetta del marito e dei parenti; può essere uccisa, o ridotta in servitù, o scacciata, o privata dei beni e mutilata del naso e degli occhi». Ebrei e musulmani, invece, «condannavano le adultere alla lapidazione. Nuovo agli orecchi dei suoi contemporanei suona dunque il discorso di Cristo sull’adultera: “Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero nel mezzo, bene in vista, e gli dissero: Maestro, questa donna è stata colta in flagrante adulterio. Ora Mosé ci ha ordinato nella legge che tali donne siano lapidate: tu che ne pensi? Parlarono così per tendergli un’insidia e aver poi un pretesto per accusarlo. Ma Gesù si inchinò e col dito si mise a scrivere in terra. E poiché quelli insistevano, egli alzò il capo e risposte: Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei. Poi si chinò di nuovo e continuò a scrivere in terra. Udite queste parole, se ne andarono tutti, uno dopo l’altro, cominciando dai più vecchi. Rimasero soltanto Gesù e la donna che continuava a stare lì, in piedi. Allora Gesù, alzatosi, le chiese: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Risposte: Nessuno, Signore. Le disse Gesù: Neppure io ti condanno, và e non peccare più” (Gv 8,3-11» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza 2008, p. 17). Una posizione in totale discontinuità dalle culture e società precedenti.


La battaglia della Chiesa per la fedeltà coniugale e l’autocontrollo degli istinti, soprattutto maschili, ha anche liberato l’uomo da una concezione animalesca del rapporto sponsale ma ha avuto anche l’effetto di nobilitare e liberare la donna.
Scrive Aline Rousselle, professore di Storia Antica presso l’Università di Perpignan: «Gli uomini romani pagani non venivano allevati nell’idea di dover esercitare un certo autocontrollo. Per il ragazzo erano normale guardare con occhio concupiscente le giovani schiave di casa. Ve ne erano sempre di giovanissime da usare per il proprio piacere». Anche «le mogli dell’alta società romana non avevano difficoltà ad accettare le relazioni del marito con schiave e concubine. Talvolta erano esse stesse a scegliere queste “socie”».
Analoga la situazione adottata non di rado dagli Ebrei: «Dal Talmud sappiamo che gli Ebrei poligami procreavano con la prima sposa e facevano prendere la pozione (abortiva, con grandi rischi anche per la vita della donna) alla seconda, che era fatta per il “piacere”» (A. Rousselle, “Storia delle donne”, Laterza 1993, pp. 346,348).
Solo nel cristianesimo, inoltre, le donne potevano scegliere la loro vocazione: tantissime si dedicarono a Dio piuttosto che ad un uomo, decidendo la loro vita al di fuori di quel rapporto di dipendenza che nella società antica era ineludibile. Nell’antichità greca e romana ed ebraica, infatti, le donne erano destinate solo al matrimonio e alla maternità, nel senso che «sono pochissime le testimonianze, prima del cristianesimo, di donne rimaste nubili» (G. Duby e M. Perrot, “Storia delle donne”, Laterza 1993, pp. 324 e 365)

Un accenno anche alla nuova concezione della vedovanza delle donne: i primi cristiani fecero il possibile per riconoscere alle vedove la loro dignità, senza imporre loro di porsi immediatamente sotto il dominio di un nuovo marito come invece volevano le leggi di Augusto. Per fare questo venivano in aiuto anche economicamente a quelle di loro che avessero voluto rimanere tali: così a Roma, nel 251 d.C., il vescovo Cornelio assiste millecinquecento vedove e poveri della città, in ossequio all’insegnamento di san Giacomo apostolo: “Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorre gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni” (Giacomo 1,27)(F. Agnoli, “Indagine sul cristianesimo”, Piemme 2010, p. 51).
Eppure ancora oggi esiste un’usanza diffusa presso molti popoli, estranei alla cultura cristiani, di uccidere le mogli dei capi comunità sulla tomba dei mariti, o alla consuetudine (come si spiega sull’Enciclopedia Treccani), vigente presso alcune tribù dell’Africa centrale e meridionale, di imporre alla vedova, dopo la morte dell’uomo «di stare seduta sulla nuda terra per tre mesi, prima di poter aspirare a un nuovo marito; di rimanere distesa nella capanna per un mese, di non accendere il fuoco, di non conversare con nessuno».
Oppure si consideri quello che accade nelle isole Tobriand della Melanesia, «dove ella deve stare segregata da sei mesi a due anni in una specie di gabbia osservando severi tabù».
Nell’India induista, invece, sebbene abolita in linea di diritto, nell’Ottocento, dagli inglesi, esiste ancor oggi qua e là l’abitudine (sati) di bruciare le vedove sulle pire dei mariti, e permane comunque un orrenda discriminazione nei loro confronti: ad esempio rifiutando le donne che non vogliono suicidarsi alla morte del marito, come impone la tradizione o comunque la perdita di diritti di un essere umano (da “Repubblica”, 13/7/1999). Molte di loro sono giovanissime, andate in sposa da bambine a uomini più vecchi con il culto (diffuso) delle vergini: 2 vedove su 5 sono convolate a nozze prima dei 12 anni e quasi una su 3 è rimasta vedova prima dei 24 anni. Del resto si stima che nel Subcontinente 1 indiana su 4 convoli a nozze prima dei 18 anni previsti dalla legge e che quasi 1 su 5 prenda marito sotto i 10 anni (da “Corriere della Sera”, 20/8/2007).

Un’altra novità nella concezione cristiana della donna è nei riguardi delle prostitute. Ritenute ignobili nel mondo greco-romano, dove il «marchio di infamia le privava definitivamente del diritto al matrimonio legittimo e della facoltà di trasmettere i pieni diritti civili: il marchio diventava ereditario» (G. Duby e M. Perrot, “Storia delle donne”, Laterza 1993, pp. 346). Nel mondo cristiano, invece, «le meretrici non erano depositarie di un marchio indelebile, di una colpa foriera di dannazione eterna; nelle elaborazione giuridiche e teologiche il peccato più esecrabile era semmai quello di chi si faceva tramite e sfruttatore delle copule mercenarie» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza 2008, p. 180-185).
La Chiesa, anche in onore della figura di santa Maria Maddalena, è vicina alle prostitute: san Ivo di Chartres, vescovo di Chartres, raccomanda come un atto di grande carità cristiana quello di spostare una prostituta strappandola alla sua vita di peccato e papa Innocenzo III concede l’indulgenza a chi prenda in sposa una ex meretrice.
Nel 1227 papa Gregorio IX approva l’ordine di Santa Maria Maddalena e fioriscono in tutta Europa conventi per il riscatto delle prostitute desiderose di cambiare vita dove venivano dati gli «strumenti indispensabili a una onesta esistenza nel mondo: i rudimenti di un mestiere, una dote, una nuova garanza di onorabilità» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza 2008, p. 180-185).
Anche le donne che sceglievano la vita religiosa nei conventi beneficiavano di istruzione e diritti, come ha sottolineato l’educatrice americana Emily James Putnam: «le ragazzine che entravano in convento imparavano a leggere e scrivere, venivano istruite, potevano studiare, tutte possibilità precluse a quante nelle classi povere erano destinate a matrimonio e maternità». Infatti esse «trovandosi libere dallo stato di soggezione a cui le confinava il ruolo di mogli e di madri, le religiose sfuggivano alle fatiche e alle sofferenze fisiche che, nella società del tempo, gravavano sulle donne feconde delle classi umili» (E.J. Putnam, citata in “Papa Francesco e le donne”, L. Scaraffia e G. Galeotti, 2014).


6. ANCORA OGGI LA CHIESA DIFENDE LA DIGNITA’ DELLA DONNA NEL MONDO

Concludiamo facendo presente che l’attenzione verso la donna non è svanita nel tempo, ancora oggi i sacerdoti cattolici sono attivi per liberare le prostitute, soprattutto nigeriane, costrette dai loro connazionali a “battere” sui marciapiedi d’Europa: pensiamo semplicemente alla Comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. E ancora oggi, come sottolinea la cronaca (anche qui), sono le comunità e le associazioni cristiane cattoliche (come Manos unidas) che difendono i diritti della donna nelle società (India ecc.) in cui i valori del cristianesimo non sono accolti dalla maggioranza delle persone. India, ma anche in Cina, a Panama.

E’ risaputo che uno dei drammi dell’Africa islamica e animista è proprio la scarsa considerazione della donna: abbiamo quotidianamente la testimonianza di come missionari cattolici e protestanti, e anche molti volontari, cerchino di contrastare le usanze poligamiche degli uomini, con conseguente diffusione dell’aids, e la mutilazione cruenta dei genitali femminili (clitoridectomia e infibulazione).  
San Daniele Comboni voleva accanto a sé, nelle missioni, giovani ragazze occidentali: «Le donne educheranno le giovinette africane in modo da formare: abili istitutrici, abili maestre e donne di famiglia, le quali dovranno promuovere l’istruzione femminile in leggere, scrivere, far di conto, filare cucire, tessere, assistere gli infermi». Cambiar la «femminil società africana» è essenziale perché la «rigenerazione della grande famiglia africana» dipende da esse (citato in F. Agnoli, “Inchiesta sul cristianesimo”, Piemme 2010, p.55). Ancora oggi i missionari cristiani combattono per le donne africane, come Annalena Tonelli uccisa nel 2004 dai fondamentalisti proprio per la sua campagna contro la mutilazione genitale femminile



II° PARTE


7. DIGNITA’ ANCHE A NEONATI E BAMBINI

Nella seconda parte di questo dossier ci occupiamo di un tema legato a quello della difesa della dignità donna, la quale cominciava fin dalle bambine, dalle neonate di sesso femminile, frequentemente scartate e abortite, come accade ancora oggi.
Per il filosofo Friedrich Nietzsche, dopo la croce di Gesù, nessun essere umano può essere più ritenuto per principio «sacrificabile»: «L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare. Ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani» (F. Nietzsche, “L’Anticristo”, Adelphi 1977, pag. 73). Prima di Cristo, infatti, i sacrifici umani furono edificati da sempre in tutti i regni e gli imperi. La stessa storia pagana era fondata sul dominio del più forte. Per questo chi, come Nietzsche, vorrebbe tornare a quella storia pagana, Gesù diventa la peggior sciagura del mondo.

Il bioeticista di Princeton Peter Singer, che vorrebbe sbarazzarsi dell’eredità ebreo-cristiana, ha riconosciuto: «I nostri atteggiamenti attuali datano dal sorgere del Cristianesimo. Se ritorniamo alle origini della civiltà occidentale, ai tempi dei Greci e dei Romani, troviamo infatti che l’appartenenza alla specie “homo sapiens” non era sufficiente a garantire la protezione della propria vita» (Peter Singer, “Etica pratica”, Liguori 1989, pag. 82-83). Ricordando inoltre che «non c’era rispetto per le vite degli schiavi o degli altri “barbari; e anche tra gli stessi Greci e Romani, i neonati non avevano un automatico diritto alla vita. I neonati deformi venivano uccisi esponendoli alle intemperie sulla cima di una collina. Platone e Aristotele pensavano che lo Stato dovesse imporre l’uccisione dei neonati deformi. I tante celebrati codici legislativi attribuiti a Licurgo e Solone contenevano disposizioni analoghe» (P. Singer, “Etica pratica”, Liguori 1989, pag. 83-84). E ancora: «L’uccisione di neonati indesiderati o l’uso di lasciarli morire, è stata prassi normale in moltissime società, in tutto il corso della preistoria e della storia» (P. Singer, “Ripensare la vita”, Il Saggiatore 2000, p. 137).
Nell’antica Grecia così come a Roma: Seneca riteneva l’annegamento dei bambini alla nascita un evento ordinario e ragionevole, Tacito accusava i giudei ai quali “è proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito”, ritenendola un’altra delle loro usanze “sinistre e ladre”. «Era comune abbandonare un figlio indesiderato in un luogo in cui, in linea di principio, chi voleva crescerlo avrebbe potuto raccoglierlo, anche se solitamente veniva lasciato in balìa delle intemperie e di animali e uccelli» (R. Stark, “Ascesa e affermazione del cristianesimo”, Lindau 2007, p. 161).

L’avvento del cristianesimo propone all’umanità un Dio che si è fatto bambino e che, capovolgendo tutti gli schemi e le convinzioni dell’epoca, prima invita i suoi discepoli a diventare “come bambini” per entrare “nel regno dei Cieli”, poi, dopo aver preso accanto a sé, e abbracciato, un fanciullo, dice loro che «chi accoglie uno di questi bambini in nome mio, accoglie me, e chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha inviato» (Mc 9,35-37; 10, 14-16).
Con l’avvento di Gesù tutto cambia, come riconosciuto anche da un altro importante intellettuale e filosofo laico del nostro tempo, Richard Rotry (simbolo del neopragmatismo americano): «Se si guarda ad un bambino come ad un essere umano, nonostante la mancanza di elementari relazioni sociali e culturali, questo è dovuto soltanto all’influenza della tradizione ebraico-cristiana e alla sua specifica concezione di persona» (R. Rotry, “Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers”, Cambridge 1991). E’ nel cristianesimo che i bambini diventano persone, d’altra parte nei Vangeli è più volte sottolineata la commozione, il senso di protezione e la stima di Gesù verso di essi (vedi Mc 5,41; Mt 18,6; Mt 18, 2-5; Mc 10, 13-14).
Gli stessi detrattori del cristianesimo, come gli italiani Corrado Augias e Mauro Pesce, affermano «”Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio”. Non si può apprezzare la forza di queste parole se non si considera che i bambini, in una società contadina primitiva, erano nulla, erano non persone, proprio come i miserabili. Un bambino non aveva nemmeno diritto alla vita. Se suo padre non lo accettava come membro della famiglia, poteva benissimo gettarlo per la strada e farlo morire, oppure cederlo a qualcuno come schiavo» (C. Augias e M. Pesce, “Inchiesta su Gesù”, Mondadori 2006, pag. 90).

Con la diffusione del cristianesimo aborto e infanticidio divengono culturalmente inaccettabili e quindi fenomeni più rari e circoscritti. Se nell’Impero romano l’esposizione di neonati non desiderati era diffusa, i cristiani condannavano tale pratica come omicidio. Come ebbe a dire Giustino Martire (100-165 d.C.), «ci è stato insegnato che è malvagio esporre perfino i neonati […] perché in tal caso saremmo degli assassini» (citato in “Writings of Saints Justin Martyr, Christian Heritage 1948).
Le legislazioni, a partire da Costantino, vietano l’infanticidio e aiutano le famiglie bisognose perché non ricorrano alla vendita dei loro figli per motivi economici. Nel 347 d.c. il padre di un bambino esposto può essere condannato alla pena capitale, nel Concilio di Toledo del 529, i vescovi stabiliscono che vadano puniti i genitori che hanno uccisi i figli «con pene più severe, esclusa la pena capitale», mentre nel concilio di Braga del 527 vengono prescritte norme contro l’aborto e l’uccisione dei figli nati da relazione adultere. Si sviluppano opere di carità e assistenza per i bambini abbandonati e le famiglie in difficoltà, nascono orfanotrofi, brefotrofi, ruote degli esposti.
Lo storico e pedagogo Buenaventura Delgado ha scritto: «La Chiesa da una parte condannò la vendita e l’abbandono dei figli, e in numerosi concili (Vaison, Lerida, Toledo..) continuò a contrastare l’uso di uccidere i figli o di lasciare che venissero mangiati dai cani, dall’altra diede vita, all’inizio del basso Medioevo, alle ruote degli esposti, in cui i bambini non desiderati venivano abbandonati dai loro genitori per essere allevati nei monasteri. Traccia di questa grande carità rimane in monti cognomi italiani: Diotallevi, Esposito, Degli Esposti, Innocenti, Trovato, Trovai, Fortuna, Proietti…» (B. Delgado, “Storia dell’infanzia”, Dedalo 2002, p. 85-86).

Nella Lettera a Diogneto, datata al II° secolo d.C., l’autore cerca di descrivere la nuova dottrina dei seguaci di Cristo: «Vivono in città greche e barbare, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale […]. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne…». Un’altra conferma del trattamento che veniva riservato ai neonati prima della cristianità: «generano figli, ma non gettano i neonati». Nella Didaché, documento della Chiesa del I secolo, si legge: «tu non ucciderai con l’aborto il frutto del tuo grembo, né farai perire il bambino già nato»

Cina e India sono tra i paesi in cui il Vangelo cristiano è penetrato di meno e con esso anche il suo messaggio. Infatti quel che colpì negativamente il missionario Matteo Ricci quando mise piede nel Celeste Impero nel 1583, furono la prostituzione dilagante, la grande corruzione, la frenesia per il denaro e soprattutto la diffusione della pratica dell’infanticidio.
Nel ‘900 J.J. Matignon scriverà: «Come sempre in Cina la superstizione gioca un ruolo chiave: infatti gli occhi, il naso, la lingua, la bocca, il cervello dei bambini sono reputati materie organiche dotate di una grande virtù terapeutica». Per questo «per ingraziarsi gli spiriti le bimbe, o in certi casi i bimbi, sono soppressi. I neonati sono soppressi o buttandoli in un angolo dell’abitazione o in una cassa dei rifiuti; dove la polvere e le immondizie non tarderanno a ostruirne le vie respiratorie» (J.J. Matignon, “Superstition, crimes et misère en Chine”, Masson & Cie 1902).
Saranno i missionari cristiani a difendere gli infanti, come sant’Alberico Crescitelli, creatore di vari orfanotrofi per bambini poveri e abbandonati (morto decapitato nel 1900), oppure san Giuseppe Freinademetz, il quale il 2 luglio 1882 scrive: «Molte anime furono già salvate dopo che siamo arrivati qui. Ancora ieri abbiamo fatto una sepoltura solenne con una piccola bambini di più di un anno che se ne morì. La sua propria madre voleva strangolarla per poter allattare un bambino altrui e guadagnare denari, essa poi sentì che noi accettiamo ogni sorta di bambini e li alleviamo bene; dunque ce la portò avanti più di due mesi, si ammalò e morì dopo essere stata confermata da noi mezz’ora prima di morire» (G. Freinademetz, “Lettere di un santo”, Imprexa, Bolzano pp.23,39). Oggi la Chiesa cattolica gestisce almeno 250 orfanotrofi in Cina, accanto a 200 ospedali e 700 ambulatori (P. Dreyfus, “Matteo Ricci”, San Paolo 2006, p. 166). Tuttavia permane la legge del figlio unico, legittimando l’infanticidio delle bambine.

Lo stesso anche in India, dove l’uccisione delle bambine è pratica diffusa per motivi economici e religiosi: nel Vashitsha Smriti 17/3 si legge: “Non avere un figlio maschio è una maledizione sulla persona”, mentre nel Manusmriti 9/138 si spiega: “In Hindi, un figlio maschio è putra” (cioè “uno che protegge una persona dall’inferno”). Questa è una delle ragioni principali per le quali la maggior parte degli hindu ha il desiderio ossessivo di avere un figlio maschio.
Anche qui l’opera dei missionari cristiani, la più nota è certamente Madre Teresa di Calcutta, è volta ancora oggi a infrangere il muro delle caste e delle disuguaglianze sociali, alla difesa della vita nascente e dell’infanzia in nome del Dio che si è fatto bambino. Pochi hanno il coraggio di riportare le frasi di Madre Teresa contro l’aborto: «L’aborto è ciò che distrugge la pace oggi. Perché se una madre può uccidere il proprio bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me? Niente. Ecco quello che io domando in India, che chiedo ovunque: che abbiamo fatto per i bambini? Noi combattiamo l’aborto con l’adozione. Così salviamo migliaia di vite. Abbiamo sparso la voce in tutte le cliniche, gli ospedali, i posti di polizia: “Vi preghiamo di non uccidere i bambini, di loro ci prenderemo cura noi”» (P.G. Liverani, “Dateli a me. Madre Teresa e l’impegno per la vita”, Città Nuova, 2003).
Per gli induisti i bambini abbandonati o rifiutati dai genitori, se sopravvivono sono e rimangono dei paria, dei sotto-casta, che scontano colpe precedenti, per questo i missionari cristiani hanno fondato numerose case della carità, scuole e orfanotrofi: 102 centri soltanto a Calcutta, secondo i dati riportati dalla stessa Madre Teresa

Il filosofo tedesco Karl Löwith spiega: «Il mondo storico in cui si è potuto formare il “pregiudizio” che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la “dignità” e il “destino” di essere uomo, non è originariamente il mondo dell'”uomo universale” del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sè e al prossimo» (K. Löwith, “Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX”, Einaudi 1949).
Lo scrittore Pietro Civati ha commentato nel 2012 la rivoluzione culturale operata da Gesù: la rivelazione cristiana viene nascosta ai sapienti e agli intelligenti, cioè ai filosofi, agli scienziati, ai maestri di sapienza e di cultura, che ebraismo e classicismo hanno da sempre esaltato. La storia del mondo, dice Civati, è rovesciata, il cristianesimo si offre ai népioi, cioè nel greco classico ai bambini, agli indifesi, agli stolti, agli inesperti, agli ultimi (“che saranno i primi”), ai semplici di cuore. Il cristianesimo donò questa una nuova dignità agli indifesi, a donne e bambini. Eliminò, oltretutto, il concetto di proprietà: essendo innanzitutto figli di Dio, i bambini e la donna non potevano più essere trattati come una mero possedimento da parte del maschio.

Una concezione del bambino diversa da quella cristiana si affermerà soltanto col comunismo e col nazismo, che per primi introdurranno non solo l’aborto ma anche l’infanticidio dei bambini malati e handicappati. Oggi, invece, assistiamo al ricorso massiccio, nel nostro Occidente post cristiano, all’aborto anche per motivi eugenetici mentre nella laica Olanda è divenuta legale l’eutanasia dei bambini fino ai dodici anni.


8. CONCLUSIONE

Uno dei principali nemici che il cristianesimo ha avuto nella storia, Friedrich Nietzsche, riferendosi in generale all’attenzione del cristianesimo per le donne, per i deboli, per i bambini, per i malati, le vittime dei sacrifici umani, scriveva: «Davanti a Dio tutte le “anime” diventa uguali; ma questa è proprio la più pericolosa di tutte le valutazioni possibili! Se si pongono gli individui come uguali, si mette in questione la specie, si favorisce una prassi che mette capo alla rovina della specie; il cristianesimo è il principio opposto a quello della selezione. Se il degenerato e il malato devono avere altrettanto valore del sano allora il corso naturale dell’evoluzione è impedito. Questo amore universale per gli uomini è in pratica un trattamento preferenziale per tutti i sofferenti, falliti, degenerati: esso ha in realtà abbassato la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare gli uomini. La specie ha bisogno del sacrificio dei falliti, deboli, degenerati: ma proprio a questi ultimi si rivolse il cristianesimo. Che cos’è la virtù e l’amore per gli uomini nel cristianesimo se non appunto questa reciprocità nel sostengo, questa solidarietà dei deboli, questo ostacolo frapposto alla selezione. La vera filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie. E questo pseudoumaniesimo che si chiama cristianesimo vuole giungere appunto a far si che nessuno venga sacrificato. La legge suprema della vita vuole che si sia senza compassione per ogni scarto e rifiuto della vita; che si distrugga ciò che per la vita ascendente sarebbe solo ostacolo, veleno –in una parola cristianesimo- è immorale nel senso più profondo dire: “non uccidere”» (F. Nietzsche, “Frammenti postumi 1888-1889”, vol. VIII, tomo III, 15 [110], Adelphi 1974, pp. 257-258)

Come abbiamo visto, invece, la storia della Chiesa cattolica porta con sé la visione più dignitosa dell’uomo e della donna, del bambino e della bambina. Senza alcuna discriminazione, senza alcuna forma di razzismo.
L’insegnamento della Chiesa agli uomini è questo: «Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,26-29).



Fonte: da UCCR


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