domenica 14 giugno 2015

STORIA VENETA – 45: 1312 - VENEZIA SI UMILIA COL PAPA. PER OTTENERE LA REVOCA DELLA SCOMUNICA



Dal testo di Francesco Zanotto


"Variano però gli storici nel narrare il modo con cui potè ottenere il Dandolo quella grazia, pare però che la ottenesse mediante la costanza sua, la sua umiltà, la sua eloquenza. Se non che molti storici raccontando che non avendo potuto l'ambasciatore ottenere accesso al papa, abbia cercato il momento di sorprenderlo a mensa, ed ivi con una corda (altri dicono una catena) al collo, siasi gettato al suoi piedi, ed in vista di sì grande atto di umiliazione il pontefice abbia concesso ai Veneziani il perdono; così, senza invocare la critica, ha l'artista nella tavola unita espresso il Dandolo ... "


ANNO 1312


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Una scomunica non è solo un fatto morale ma può diventare anche fatto economico oltre che politico. E Venezia, isolata dall'ostilità del pontefice, voleva a tutti i costi recuperare credito negli scambi con l'Occidente. Così il suo ambasciatore ebbe la buona idea di dimostrarsi umile nel chiedere perdono ...


LA SCHEDA STORICA - 45


L’immediata conseguenza di portata storica della congiura Querini-Tiepolo del 1310, fu senz'altro l'istituzione del Consiglio dei Dieci, una sorta di comitato di salute pubblica composto da dieci  membri che operavano in strettissimo rapporto con il doge ed i suoi più stretti consiglieri.
I decreti emanati da questo nuovo organo, diretta emanazione della volontà ducale, rispondevano alle esigenze di celerità ed efficacia ed avevano come scopo principale quello di ripristinare per allora e per il futuro di mantenere l'ordine a Venezia. Da provvisorio infatti, dovuto alle circostanze eccezionali e drammatiche della congiura, il Consiglio dei Dieci divenne uno degli organi vitali e irrinunciabili della vita politica della Serenissima, fino alla sua caduta.
Ma un'altra ben più grave conseguenza nata dagli accampati diritti del doge Gradenigo su Ferrara, pesava ancora sulla città: la scomunica papale.
Quando il vecchio doge morì nel 1311 Venezia tirava tutto sommato un sospiro di sollievo vedendo aprirsi la possibilità di un governo più conciliante con il Pontefice Clemente V che non aveva dimenticato certo la faccenda. Questa profonda esigenza di pace portò probabilmente sul trono ducale in un breve arco di tempo due insignificanti dogi: l'anziano senatore  Stefano Giustinian, che fuggì in monastero alla notizia dell'elezione, e Marino Zorzi, detto il Santo, che dopo un breve periodo di governo passò a miglior vita nel 1312.
In quel medesimo anno saliva così al trono un altro uomo di azione, Giovanni Soranzo che nel 1296 durante la guerra con i Genovesi aveva conquistato l'importante città portuale di Caffa. Al Soranzo era stato anche affidato il comando del contingente veneziano che avrebbe dovuto respingere l'assalto delle truppe pontificie a Ferrara, subendo invece una cocente sconfitta.
Alle glorie militari più o meno brillanti del nuovo doge, si contrapponeva un'unica ombra che ne fece probabilmente ritardare la sua elezione sul trono ducale.  Sua figlia infatti aveva sposato un figlio di Marco Querini, andando così ad imparentarsi proprio con una delle famiglie protagoniste della recente congiura di Bajamonte e dello stesso Querini. La sua elezione tuttavia, proprio per questa pericolosa parentela, sembrava dimostrare il mutato clima della città, un clima di ritrovata conciliazione dopo tanta tensione. E il suo ducato durato ben 16 anni, in questo senso non deluse.
Il più grave problema che il nuovo doge si trovò ad affrontare e che affliggeva la città ormai da cinque anni, era la scomunica papale. La questione venne finalmente risolta proprio dal Soranzo che riallacciò immediatamente dopo la sua elezione le trattative diplomatiche con il Papa. Il provvedimento di Clemente V stava procurando a Venezia non pochi problemi di ordine spirituale, ma non solo.
Nella città infatti, a causa del provvedimento, non si potevano celebrare riti o funzioni sacre, nessuno poteva rendere testimonianza o redigere testamento e, cosa ancor più grave, i cittadini venivano sciolti da ogni obbligo di fedeltà al doge. Non solo. Ciascuno di essi poteva essere fatto schiavo da chiunque avesse voluto senza per questo venirne punito. E ancora: i traffici con gli altri paesi cristiani erano interdetti - vitale si dimostrerà allora l'accordo commerciale firmato da Venezia in quegli anni col Sultano d'Egitto -, mentre tutti i precedenti trattati in materia commerciale venivano annullati.
 Il provvedimento di scomunica, come ben si nota, non andava quindi a colpire solo l'aspetto spirituale e religioso della comunità lagunare, ma l'intera sua attività politica ed economica in particolare.
Ben s'intuisce come ormai dopo cinque anni, la scomunica stava diventando per la città un vero e proprio cappio al collo che andava facendosi con il tempo sempre più stretto. E così, allo scopo di risolvere definitivamente l'annosa e delicata questione, il doge aveva spedito alla corte avignonese del Papa uno dei suoi più fidati ed abili ambasciatori, Francesco Dandolo, detto "Cane", curioso soprannome già portato da un suo antenato. All'ambasciatore veneziano presentatosi presto ad Avignone, fu tuttavia inizialmente negata la possibilità di avere un colloquio con il Sommo Padre, che molto probabilmente voleva verificare, dopo cinque lunghi anni, la sincerità e la reale volontà del governo veneziano. Il Dandolo non si perse fortunatamente d'animo e dopo una lunga attesa, umilmente, ma anche con vera abilità diplomatica, riuscì a far togliere l'interdetto e la scomunica sulla propria città.
Sulla circostanza che portò a questo insperato successo diplomatico del Dandolo, le fonti sono però discordi. C'è chi racconta infatti che più che per l'eloquenza dell'ambasciatore veneziano il Papa si sia fatto convincere delle mutate intenzioni di Venezia da un estremo atto di umiliazione dello stesso Dandolo. Questi, non riuscendo ad avere l'incontro con Clemente V, gli si presentò improvvisamente ed inaspettatamente durante la mensa con una corda (forse una catena) al collo. Così conciato il veneziano si sarebbe poi gettato ai piedi dell'incredulo ed attonito Pontefice come atto di vera umiltà, chiedendo, supplicandolo affinchè perdonasse il suo popolo.  Il  Papa, ottenuta l'estrema umiliazione e con essa la prova definitiva delle vere intenzioni del governo ducale - che infatti ritirò le sue truppe da Ferrara e rinunciò ad ogni pretesa - revocò finalmente la scomunica.
Le cose, tuttavia, non sembra si siano limitate al generoso atto di prostrazione del Dandolo. Venezia aveva ostinatamente e superbamente resistito alla scomunica: doveva in qualche modo pagarla. E il governo veneziano pagò letteralmente il suo peccato.
La revoca papale infatti, gli costò ben 90.000 fiorini d'oro, una somma esorbitante per le magre casse dello Stato e resa ancor più pesante dalla cavillosa ostinazione del Pontefice sulla valuta che doveva essere rigorosamente il fiorino d'oro.
A mali estremi, estremi rimedi, naturalmente. Il governo veneziano, infatti, con un prestito forzoso del 3% su tutti i redditi indistintamente e con la minaccia ai locali banchieri fiorentini della immediata espulsione se non avessero fornito i 90.000 fiorini ad un cambio ragionevole, riuscì a racimolare l'ingente somma e a far così finalmente revocare la pesante scomunica. L'anima  e i commerci dei Veneziani erano salvi.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI



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