domenica 5 giugno 2016

IL SUICIDIO INTELLETTUALE MUSULMANO ALLA BASE DELL’ATTUALE CRISI ISLAMICA


Averroè, in arabo Ibn Rushd. Filosofo arabo (Córdoba 1126 - Marrakech 1198). Appartenente a una famiglia di giudici, seguì egli stesso questa carriera e fu giudice a Siviglia. Dal 1182 fu medico dei califfi Abu Ya’qub Yusuf ibn al-Mu'min e Abu Yusuf Ya’qub al Mansur. Nel 1195 cadde in disgrazia a causa delle accuse degli ortodossi; la protezione del califfo Abu Yusuf Ya’qub al Mansur gli salvò la vita, ma dovette andare in esilio in Marocco.


In un vecchio libro di Paul BairochLo sviluppo bloccato –  si poteva leggere che intorno all’anno Mille le tre grandi civilizzazioni culturali del mondo di allora, l’arabo-islamica, l’europeo-cristiana e la cino-confuciana erano grosso modo allo stesso livello. Chiunque sia stato a Cordova, a Granada  e nell’Andalusia spagnola non ha difficoltà a riconoscere lo splendore e la raffinatezza a cui erano giunti i musulmani di Spagna. Poi, sempre in quel torno di tempo tra il IX e l’XI secolo successe qualcosa, e da allora le tre civilizzazioni culturali hanno cominciato a marciare secondo propri indirizzi e velocità.

È proprio in quell’epoca che Robert R. Reilly in un suo recente volume The closing of muslim mind – How the intellectual suicide created the modern islamist crisis  (ISI Book, 2010) individua le cause mentali-culturali che hanno condotto una splendida civilizzazione culturale verso uno dei più grandi drammi intellettuali nella storia umana.

Non occorre aver letto un  solo rigo di Carl Schmitt per arguire che il pensiero politico ha origini teologiche e neanche uno di Max Weber per intuire che dalle grandi opzioni religiose e dai voltaggi mentali-culturali che esse determinano derivano esiti economici inaspettati (qui assumo come feconda  la tesi  di Weber, ovviamente, anche se c’è chi non la ritiene probante a spiegare i take off o i ristagni dell’economia).

Suicidio intellettuale.

Lo storico delle idee sa che è proprio da come sistemi le cose in cielo che organizzi quelle in terra, e che un dibattito teologico può risultare ferale per un’intera civiltà. È proprio a una serrata disputa teologica  avvenuta tra il IX e i X secolo dell’era cristiana all’interno dell’Islam che Reilly fa risalire il   declino intellettuale del mondo musulmano; è a partire dal rifiuto del pensiero greco (de-ellenizzazione) di una delle fazioni teologiche in lotta risultata alla fine vincente  e all’abbandono progressivo  della ragione – il dono dei greci-  nella maggior parte del mondo sunnita, che si innescherà il processo di involuzione a cui oggi assistiamo.
Da allora in poi sarà la teologia non la filosofia a decidere tutto: le cose del cielo e quelle della terra. Reilly cita la frase del più grande studioso musulmano del XX secolo, Fazlur Rahman: “Un popolo che priva se stesso della filosofia necessariamente si espone a un depauperamento di idee fresche – nei fatti commette suicidio intellettuale”.

La chiusura della mente musulmana.

Questo dibattito ebbe luogo nei grandi centri della civiltà musulmana – Damasco, Bagdad e Cordova -, e oppose due scuole religiose : i Mu’taziliti  e  gli Asciariti (Ash’arite Islam).  
La corrente  Mu’tazilita che nel nostro linguaggio potremmo definire “liberale” e “razionalista”,  influenzata dal pensiero greco di cui vuole conservare l’eredità filosofica,  intende coniugare fede e ragione. Gli esponenti più noti (per noi) sono  Al Farhabi, Avicenna e Averroè, mentre dal lato Ash’arita “tradizionalista” e mistico si situeranno Ibn Hanbal (che ancora oggi è una delle figure di riferimento in Arabia Saudita) e soprattutto Al Ghazali (“pivotal figure” e “la seconda persona più importante nell’Islam subito dopo Maometto”,  lo definisce Reilly) che sarà il grande trionfatore, colui che starà rispetto al Profeta come Paolo di Tarso a Gesù Cristo.
Il centro del dibattito, galvanizzato  dal primo incontro con la filosofia greca, sarà  quello  tipico di ogni religione monoteista:  lo status della ragione in relazione alla rivelazione di Dio e alla sua onnipotenza. In che rapporto sta la ragione nell’incontro dell’uomo con Dio?  C’è rapporto tra la ragione e la rivelazione divina? E la cosa più importante: può la ragione conoscere la verità? Deve risultare chiaro, e ciò vale anche per molte questioni che riguardano il cristianesimo, che il Corano, come il Vangelo, non danno delle teologie belle e pronte (né Maometto né Gesù erano teologi) ma è il lavorio incessante proprio della  teologia a sviluppare nozioni di Dio allo stesso tempo implicite ed esplicite nei Testi Sacri.

La chiusura avvenne in due modi: uno di negare alla ragione di conoscere alcunché, l’altro di licenziare la realtà come non conoscibile. Tipicamente: la ragione non può conoscere, o, non c’è nulla da conoscere.  Entrambi gli approcci saranno sufficienti a ritenere irrilevante la realtà, ed entrambi filtreranno attraverso la corrente vincitrice, quella Asharita, nel mondo Sunnita. Radicale volontarismo (Dio è pura volontà) e occasionalismo (non c’è rapporto di causa ed effetto  nell’ordine naturale ) saranno perciò i binari entro cui viene fatta la ricognizione della realtà da questo Islam trionfante. Ciò determinerà la negazione del principio di causalità. Nel mondo sunnita musulmano “la realtà diventa inaccessibile” perché le vedute di certi teologi tra nono e dodicesimo secolo sono prevalse, è in estrema sintesi il tema di questo lavoro.

La chiusura della mente musulmana ha creato quella crisi di cui il moderno terrorismo è solo una manifestazione.

Essa è molto più vasta e profonda e fa sì che il mondo Arabo stia in fondo a tutte le classifiche dello sviluppo umano; che lo spirito scientifico vi sia ormai moribondo; che nella sola Spagna siano stati tradotti in un solo anno ciò che nell’intero mondo arabo è stato tradotto in un secolo; che  alcune persone in Arabia saudita ritengano che nessun uomo è sbarcato sulla luna (a dire il vero anche qualche grillino da noi); che l’uragano Katrina sia ritenuto un chiaro castigo divino.

A fianco di questa lettura ho rispolverato il vecchio libro di Ernest Renan Averroès et l’Averroïsme  (4 ed. 1882) dove si possono leggere alcuni brani in cui la visione di Reilly trova singolare conferma retrospettiva.
Leggo in Renan: “lo sviluppo intellettuale rappresentato dai dotti arabi fu fino alla fine del XII secolo superiore a quello del mondo cristiano. Ma non riuscì a passare nelle istituzioni; la teologia oppose a questo riguardo una barriera insuperabile. Il filosofo musulmano restò sempre un dilettante o un funzionario di corte. Il giorno in cui il fanatismo fece paura ai sovrani, la filosofia scomparve, i manoscritti furono distrutti per ordine regio, e solo i cristiani si ricordarono che l’islamismo aveva avuto dei dotti e dei pensatori.   La filosofia araba offre l’esempio a un di presso unico di una altissima cultura soppressa quasi istantaneamente senza lasciare traccia, e quasi dimenticata dal popolo che l’ha creata. L’islamismo svelò in questa circostanza ciò che è estremamente consentaneo al suo genio. Anche il cristianesimo è stato poco favorevole allo sviluppo della scienza positiva; è riuscito ad arrestarlo in Spagna e a ostacolarlo in Italia; ma non l’ha soffocato, e anche gli elementi più elevati della famiglia cristiana hanno finito per riconciliarsi con detta scienza. Incapace di trasformarsi e di ammettere alcun elemento di vita civile e profana, l’islamismo strappò dal suo seno ogni germe di cultura razionale. (…) Il mondo musulmano entrò da allora in poi in questo periodo di ignorante brutalità se non per ricadere in una triste agonia dove si dibatte sotto i nostri occhi”.

Aggiungo infine  che la  tesi forte e ardita di Reilly– far risalire un dramma mondiale ad alcuni eventi teologici accaduti otto nove secoli fa – diventa più difendibile se la si pone in un’ottica di “lunga durata” come ci ha insegnato Fernand Braudel.  

Riferito alla nostra realtà questo approccio ci ricorda la tesi di David Abulafia che fa risalire la frattura tra Nord e Sud d’Italia non  al Risorgimento ma alla fondazione del Regno Normanno al Sud e dell’Italia dei Comuni al Nord, allo stesso modo in cui  Robert Putnam fa risalire il maggior rendimento delle istituzioni al Nord  alla maggiore “tradizione civica” risalente al Medioevo e ai Comuni. 
Voglio dire che se ti poni in una logica di studio delle radici profonde, a furia di scavare scopri che esse sono lunghe in maniera insospettabile, e che c’è un momento in cui si biforcano, prendono una direzione piuttosto che un’altra: compito di chi studia è individuare questo “momento originario” in cui la realtà storica prende una piega piuttosto che un’altra.


Fontesrs di Alfio Squillaci, da Gli Stati Generali  del 20 gennaio 2015




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